Cosa rappresenta oggi un film su Berlinguer? Ma, più nel dettaglio, cosa rappresenta oggi un film su Berlinguer che raccoglie l’onere e l’onore di narrare del Berlinguer politico, del Berlinguer segretario del Partito Comunista Italiano?
Scongiurata l’ipotesi di un possibile biopic che passasse in rassegna le tappe della vita del politico sardo e che poca – se non nessuna – attinenza avrebbe avuto con la politica, rimane da interrogarsi riguardo il valore semiotico che l’uscita sul grande schermo di questo film assume nel mondo attuale.
Sono trascorsi quarant’anni: quarant’anni dalla morte di Enrico Berlinguer, avvenuta l’11 Giugno del 1984, quarant’anni dal funerale politico con più affluenza della storia della Repubblica tenutosi in Piazza San Giovanni a Roma. Ma, più importante, son trascorsi 33 anni dallo scioglimento del partito di cui Berlinguer è stato – forse – il più glorioso segretario: il PCI.
Oltre trent’anni in cui la falce ed il martello e la bandiera rossa hanno smesso di incuter paura, divenendo a tratti ridicole. Trent’anni in cui le forze progressiste sono arretrate sempre di più, rendendosi via via più moderate – inoffensive oserei dire -, abdicando al proprio ruolo di portavoce delle istanze degli oppressi, dei deboli. Facendola breve, trent’anni in cui destra e sinistra hanno cominciato ad assomigliarsi ogni giorno di più, perdendo via via cognizione di chi fosse chi.
È questo il panorama politico che si staglia al di là delle porte dei cinema in cui si dà avvio alle proiezioni de La Grande Ambizione di Andrea Segre: una politica in cui il protagonista del film, il grande Enrico Berlinguer, non avrebbe probabilmente saputo quale seggiolino occupare in Parlamento.
Non è mio intento, in questo articolo, andare a sindacare sull’effettivo valore cinematografico dell’opera – che resta in ogni caso di pregevole fattura -, quanto sulla narrazione politica portata avanti non tanto dal film, quanto dalla realizzazione stessa di una pellicola di questo tipo.
Berlinguer è per la sinistra – quella vera – un personaggio problematico. Forse addirittura più di figure quali Iosif Stalin o Fidel Castro ma, a differenza di questi due, lo è in modo assai più peculiare.
Berlinguer è stato il volto del comunismo occidentale, di quella variante di comunismo che prende il nome di eurocomunismo: una eterodossia marxista che ha per anni portato il vanto del proprio ottimo rapporto con le istituzioni liberali e la democrazia, che ha rinunciato alla teoria del violento rovesciamento dello status quo in favore di una politica del continuo compromesso e dell’instancabile dialogo. In sostanza, Berlinguer rappresentava il comunismo non-sovietico, il comunismo di coloro che auspicavano un mondo più giusto ma che volevan prendere le distanze – anche se il Partito non si distanziò mai totalmente – dalle brutture di Mosca.
Berlinguer è stato per l’Italia quello che potremmo definire un ultimo comunista: la sua morte ha dapprima causato il clamoroso superamento da parte del PCI ai danni della DC alla tornata elettorale europea del 1984 che fece del Partito Comunista Italiano il primo partito d’Italia ma, successivamente, è stata una delle cause del graduale crollo al quale il partito è andato incontro, giungendo poi, nel 1991, al definitivo scioglimento.
Il rischio, quando si parla di Enrico Berlinguer, è di storicizzarlo eccessivamente, assolvendolo completamente dal degrado politico in cui oggi versa l’Italia e, più specificamente, la “sinistra” in favore di una nostalgia spasmodicamente ricercata da coloro che, un tempo, erano comunisti e che sono ad oggi orfani politicamente. Esentare totalmente il fu segretario del PCI da responsabilità riguardo il penoso stato in cui versa la società odierna significa edulcorarlo, relegarlo ad un tempo che fu e che poca – se non nessuna – correlazione intrattiene col presente. Significa renderlo materia morta.
Semplificando, esprimersi in questi termini nei riguardi di Enrico Berlinguer significa equiparare il suo
impatto sul mondo attuale con quello di altre figure storiche quali Carlo Magno o Pericle. E se questa pratica risulta facile e comoda nell’ottica del perseguimento di una politica sentimentalistica, che vuol – forzatamente – vedere in Berlinguer un appiglio in una realtà che pare aliena da talune visioni, è però totalmente erronea da un punto di vista politico, in particolare vista e considerata la provenienza marxista del pensare e dell’agire berlingueriano.
Tornando alla questione della problematicità della figura di Berlinguer, esposta sommariamente in uno
dei paragrafi precedenti, è utile considerare che il PCI abbia raggiunto il proprio apice elettorale durante la segreteria Berlinguer, toccando un 33,33% che destò non poco clamore: un terzo d’Italia votava Comunista, un terzo d’Italia – Paese cattolico per antonomasia – voleva il comunismo. E, nonostante ciò, il Partito – ad onor del vero rimasto orfano di Berlinguer ma comunque fondato su quelle che erano le linee teorico-pratiche del berlinguerismo – non riuscì a cavalcare l’onda, naufragando nella catastrofe dello scioglimento appena sette anni dopo.
Questo, che è da considerarsi un roboante fallimento, dovrebbe costringere chiunque a spalancare gli
occhi riguardo le contraddizioni presenti nella variante di matrice berlingueriana della cosiddetta Via
italiana al socialismo, troppo spesso esentata da biasimi e spogliata delle proprie criticità. Ed è in questo che il film diretto da Andrea Segre fallisce. Nei novantacinque minuti di cui questa pellicola, a metà strada fra la freddezza del documentario ed il sentimentalismo della fiction consta, ci viene presentata un’immagine di Berlinguer parziale, riduttiva, semplicistica, poco rispettosa della tridimensionalità della personalità del politico sardo.
Ad un occhio attento – e leggermente malizioso -, risulta evidente che la narrazione portata avanti dal film sorvoli quasi totalmente sulla natura marxista-leninista del modo di far politica di Enrico Berlinguer, restituendoci un’immagine del più glorioso – probabilmente – segretario del PCI che non di tanto si discosta da quella di un qualsiasi riformista in cerca di una maggiore giustizia sociale.
Ciò che si va a perdere fra questi mille colpevoli tagli, è ciò che ha reso Berlinguer la figura statuaria che oggi è: la sua immensa fantasia politica e la caparbietà con cui si proponeva di raggiungere gli obiettivi vagheggiati; la capacità di inserirsi ed imporsi in maniera eclettica ed istrionica in una realtà che pareva condannare ogni forza politica alla temperanza – ed allo stagnamento – ed in cui il PCI, nonostante i conclamati impedimenti, è riuscito a giocare un ruolo importante nel progredire della nostra società.
Ne La grande ambizione s’è eseguita una precisa operazione di commercializzazione della figura di Berlinguer, totalmente spogliata di ogni atteggiamento divisivo: nel film s’è parlato quasi unicamente del Berlinguer uomo, di una persona dotata di una moralità ferrea, apprezzata da sinistra a destra, come confermato dalla presenza di Giorgio Almirante ai suoi funerali. È stata mostrata unicamente la facciata del Berlinguer conciliatore, del Berlinguer moderato ed innamorato della democrazia, del Berlinguer che si sentiva più sicuro all’interno del Patto Atlantico. S’è dipinto il segretario del PCI come l’unico uomo buono in mezzo a due fuochi di malvagità – il capitalismo statunitense ed il socialismo reale sovietico – che, unicamente a causa della nefandezza della realtà e non per delle lacune nella propria pratica politica, non riuscirà mai a concretizzare l’ideale di cui s’era reso profeta.
Un uomo buono, un sognatore costretto ad adattarsi alle storture della realtà che vive perché, in fondo, seppur vagheggiata, un’alternativa non esiste.
Di una storia come quella di Enrico Berlinguer la Sinistra italiana – ed anche quella europea – dovrebbe comprendere la profonda correlazione con la situazione attuale, eviscerando ciò che è stato al fine di comprendere gli errori che si son fatti e superare dialetticamente l’esperienza dell’Eurocomunismo per, infine, rinascere dalle proprie ceneri.
Al contrario – e l’uscita di questo film rende tutto ciò quanto mai plateale -, la tendenza è quella di relegare Enrico Berlinguer e la sua storia al passato, rendendolo materia morta, inabile di pronunciare anche soltanto una parola sul presente.
Berlinguer e, con lui, il comunismo escono da questo film sconfitti: smussati e resi inoffensivi nei confronti di quelle elité che anni fa temevano l’avanzata della falce e del martello e che ora, consapevoli della vittoria incontrastata del proprio sistema di pensiero, finiscono addirittura per commuoversi davanti all’ingenuità puerile di un Berlinguer, di un uomo che aveva il coraggio di sognare un mondo migliore.