Il Medio Oriente attraversa una fase di tensione crescente, in cui Israele appare come un elemento destabilizzante, amplificando equilibri già fragili e sconvolgendo un assetto regionale in perenne instabilità. Le conseguenze di questa realtà si spingono ben oltre i confini geografici, raggiungendo l’Europa, dove si generano sentimenti controversi e un antisemitismo dai tratti nuovi (si vedano i fatti di Amsterdam).
Le nazioni arabe, eterogenee nei loro orientamenti, rivelano alleanze inaspettate: da un lato, paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto, i quali, pur senza abbandonare del tutto i contrasti del passato, sembrano avvicinarsi a una visione pacificatrice verso l’Occidente e Israele; dall’altro, l’Iran, che rappresenta un baluardo di ostilità dichiarata, etichettato in Occidente come parte di un “asse del male” che comprende Iraq, Libano, Yemen e Gaza. Esistono poi quegli Stati – non pochi – che, pur sostenendo retoricamente la causa palestinese, si limitano a un supporto simbolico, mentre il dissenso popolare resta silente, senza una vera voce istituzionale.
LA MEDIATIZZAZIONE DELL’ORRORE E IL NUOVO ANTISEMITISMO – Nell’era della comunicazione istantanea, in cui i media diffondono in tempo reale immagini di sofferenza e dissenso, l’Europa si trova irrimediabilmente implicata nelle dinamiche del conflitto israelo-palestinese. Questo coinvolgimento, oltre ad investire aspetti politici e diplomatici, si riverbera nelle comunità e nei tessuti sociali europei, dove le questioni legate a Israele e Palestina sono particolarmente sentite. La vicinanza mediatica consente all’opinione pubblica di interiorizzare le sofferenze del popolo palestinese, trasformandole in simboli di un dibattito che travalica i confini geopolitici e si insinua nelle identità culturali e sociali.
Tale dibattito è reso più complesso dalla ormai sottilissima sfumatura tra antisionismo e antisemitismo, una linea sottile ma cruciale che oggi viene spesso attraversata da nuove narrative. Questo antisemitismo contemporaneo, che potremmo definire “geopolitico” o “umanitario”, non si radica più nei tradizionali stereotipi storici o in teorie cospirazioniste, bensì in una percezione che associa il sionismo a una giustificazione ideologica per l’espansione territoriale israeliana e per le sue presunte violazioni dei diritti umani. In questo contesto emerge una legittimazione sociale che amalgama narrazioni provenienti tanto da ambienti israeliani quanto arabi, generando nuove forme di polarizzazione ideologica. Si sviluppa una retorica in cui l’equazione “gli ebrei sono sionisti, i sionisti sono ebrei” si cristallizza in un paradigma che rischia di ridurre la pluralità identitaria e culturale degli attori coinvolti.
LA DOTTRINA NETANYAHU E LA MORTE DI ISRAELE – L’attuale governo israeliano, sotto la guida di Netanyahu, ha contribuito a intrecciare sionismo e identità ebraica in una narrazione monolitica, che rende impossibile separare la critica politica al sionismo da un apparente attacco all’essenza stessa dell’identità ebraica. Tale configurazione ha radici profonde, che si rifanno alla Guerra dei Sei Giorni e trovano ulteriori giustificazioni nelle analisi di autori come Alain Finkielkraut. Proprio qui il sionismo assume una dimensione duplice, religiosa e politica, che difende l’esistenza dello Stato di Israele e consolida una visione che rende ogni critica alla sua politica un bersaglio contro l’intera comunità ebraica.
In Europa questa narrazione ha contribuito a generare un cambiamento nella percezione pubblica; per cui il sentimento di solidarietà verso i palestinesi si combina con la rappresentazione di Israele come potenza oppressiva, razzista e neocolonialista. Questo quadro ha prodotto episodi di antisemitismo e vandalismi contro simboli ebraici, oltre che minacce e violenze nei confronti di uomini e donne, talvolta superstiti dell’Olocausto (si pensi a Liliana Segre), della cui estraneità ai fatti di Gaza non è legittimo dubitare. Come già detto, non si tratta più di un antisemitismo basato su stereotipi complottisti tradizionali; al contrario, emerge un nuovo sentimento critico che considera Israele in contraddizione con i principi fondativi del 1948. L’ideale di Israele come Stato dei diritti e delle libertà, concepito nella sua fondazione, sembra oggi tradito dalle politiche espansionistiche e dalla tragedia dei civili palestinesi vittime del conflitto.
UN’EUROPA UMANISTA – Per rispondere a questa nuova forma di antisemitismo, l’Europa deve superare la polarizzazione che Carl Schmitt identificava nel binomio amico-nemico, scegliendo invece di abbracciare una cultura universale fondata su un umanesimo laico e inclusivo. Non si tratta di un’adesione superficiale ai valori universali, bensì di un impegno concreto per la difesa dei diritti civili e della dignità umana. La riscoperta dei principi sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo potrebbe rappresentare un antidoto efficace contro il dilagare dell’odio e del razzismo, offrendo un baluardo etico e normativo per arginare l’antisemitismo e altre forme di discriminazione.
Costruire un’Europa fondata su una cultura umanistica richiede, inoltre, la capacità di accogliere e comprendere le diversità, evitando di cadere nella polarizzazione che alimenta opposti estremismi. Solo attraverso una simile prospettiva si offre un’alternativa concreta alla retorica dell’odio, e si consente di affrontare l’antisemitismo attuale senza strumentalizzarlo come pretesto per nuovi conflitti. La responsabilità di intraprendere questa strada ricade su un attore imprescindibile: noi, come cittadini e promotori di un progetto europeo che aspiri a giustizia, equità e umanità condivisa.