Gio. Nov 21st, 2024

“Neolingue”: non solo «Socing», non solo social

5/5 - (3 votes)

Nell’universo distopico di 1984[1], romanzo pubblicato nel 1949 da George Orwell, tre sono le maggiori potenze mondiali, perennemente in guerra fra loro: Oceania, Estasia, Eurasia. Londra, in Oceania, è sede di vari ministeri che presiedono all’amministrazione della società, che avviene secondo i principi dell’ideologia «Socing» («IngSoc» nell’originale, ovvero “socialismo inglese”), imposta dal Partito Socialista Inglese (nel romanzo, semplicemente “Partito”), partito unico con a capo il Grande Fratello, entità astratta o persona – nessuno lo sa – in grado di controllare ogni singolo cittadino, mai manifestatasi a qualcuno di persona, ma onnipresente e onnipotente, il cui volto è affisso su manifesti sparsi per tutta la città. I membri del Partito, che professano il «Socing», devono aderire necessariamente a tre slogan: «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza». In ogni abitazione dei membri del Partito sono installati i «teleschermi», finalizzati a controllare qualsiasi loro comportamento, gesto, parola, e pronti a segnalare alla «Psicopolizia» (nell’originale, «Thought Police») eventuali sospetti legati all’opposizione nei confronti della dottrina dominante da parte di uno o più membri, indiziati anche solo di concepire pensieri trasgressivi rispetto alla norma. Al di sotto del Partito, distinto in Interno (formato da amministratori, cariche prestigiose) ed Esterno (funzionari e impiegati subalterni), c’è la bistrattata classe dei «prolet», priva di ogni potere e privilegio, le cui abitazioni sono fatiscenti tuguri, e alla quale sono relegati i lavori pesanti, in cambio del minimo di sussistenza. Il loro vantaggio? Non vengono controllati direttamente attraverso i teleschermi.

Da quando è salito al potere, il Partito impone l’uso di un’unica lingua, la «neolingua», con l’intento di soppiantare l’«archelingua», quella standard, in vigore fino ad allora. L’autore vi dedica una trattazione descrittiva in una specifica sezione del romanzo, l’Appendice. I principi della neolingua. Come spiega all’inizio dell’Appendice, nel 1984 – anno in cui è ambientata la vicenda del romanzo – l’impiego della neolingua come unico mezzo di comunicazione non era ancora stato ben radicato tra la popolazione; i redattori del Dizionario della neolingua auspicavano che entro il 2050 si sarebbe sostituita del tutto all’archelingua. Ma che cos’è, dunque, la neolingua? E perché era tanto importante che il Partito se ne dotasse, con quali obiettivi?

Tra i principali interventi effettuati dai redattori per dar vita a questa varietà linguistica, dal punto di vista morfologico si assiste a un’introduzione massiccia di prefissi in sostituzione alla formazione suffissale di comparativi e superlativi (per fare un esempio, dalla base “buono” si ottengono “piùbuono”, “arcipiùbuono”) e di un prefisso unico per i contrari, s- (“sbuono”); inoltre sono eliminate del tutto le forme irregolari e le eccezioni linguistiche, uniformando così la formazione dei plurali, per esempio, o delle forme verbali (“uomo” diventa “uomi” anziché “uomini”, così come “corruto” in luogo di “corso”, per il participio passato del verbo “correre”), cancellando dunque l’esistenza di fenomeni che in linguistica prendono il nome di allomorfia[2] e di suppletivismo[3]. Ancora, largo alla produzione di composti e abbreviazioni, in grado di racchiudere un ventaglio di concetti in una sola parola (per esempio, “psicoreato” indica tutti i reati relativi alla mancata aderenza ai principi del Partito). In questo caso, la prospettiva morfologica s’intreccia con quella lessicale: non ci si lasci ingannare dall’idea che la creazione di nuove parole implicasse un ampliamento del lessico, poiché, come spiega l’autore stesso nell’appendice «[…] in numero necessariamente esiguo, queste parole avevano ampliato sempre più la gamma dei loro significati, fino ad assorbire gruppi interi di parole le quali, visto che potevano essere rese in maniera sufficiente da un solo termine che le comprendeva tutte, potevano ora essere cancellate e dimenticate».[4] Attraverso questo processo di semplificazione programmata, il bagaglio dei vocaboli viene dunque ad essere decimato, perdendo così i sinonimi, impedendo di individuare le sfumature tra una parola e l’altra, riducendo al minimo la scelta.

La decisione di depauperare a tal punto il linguaggio, chiaramente, non è casuale, poiché «[…] più si riducevano le possibilità di scelta, minori erano le tentazioni di mettersi a pensare. La speranza era di riuscire infine a far fluire il discorso articolato direttamente dalla laringe, senza alcuna implicazione dei centri cerebrali superiori»[5]. Infatti, come l’autore aveva preannunciato nelle pagine precedenti: «Fine specifico della neolingua non è solo quello di fornire, a beneficio degli adepti del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero e ridurre sempre più la libertà di coscienza»[6].

Insomma, la manipolazione della lingua si rivela indispensabile agli organismi governativi del regime totalitario che annichilisce le vite dei personaggi di 1984. Ma non si parla solo delle loro vite, né solo del Socing. Come infatti sostiene il professor Manferlotti, curatore dell’edizione del romanzo che ho consultato per le citazioni riportate supra, «[…] una lettura che insista sull’aspetto “profetico” di 1984 […] rischia d’essere sviante», poiché Orwell scrive quest’opera all’indomani del secondo di due conflitti mondiali, la sua è una coscienza che i totalitarismi li ha conosciuti, regimi accomunati dall’impiego tanto subdolo quanto abile dei mezzi d’informazione di massa: «[…] per lo scrittore, il futuro è già presente; nel momento in cui egli scrive, il processo di degenerazione è già avviato, la massificazione ha già iniziato a corrodere il destino individuale e sociale.»

Le considerazioni appena proposte, in ogni caso, non vanno assolutamente a sottrarre a questo testo il suo valore di monito nei confronti del futuro, né quello di fonte di riflessioni sul passato. Tornando alla questione linguistica, allora, sarebbe interessante astrarre il concetto di neolingua dal suo precipuo significato legato alla finzione narrativa, per ampliarlo nell’orizzonte storico reale. In altri termini, intendere per neolingua una lingua massificata, che rifugge i particolarismi, non autentica, modellata sui contorni della cultura dominante. Una lingua a cui confarsi perché sì.

Ecco, se si pensa, per esempio, all’imposizione di una lingua dall’alto, una lingua che fosse omogenea, depurata da tratti particolarmente riconoscibili come locali, quale miglior esempio del volgare fiorentino, elevato a princeps tra tutti i volgari della penisola italica dapprima da Pietro Bembo (si veda il suo Prose della volgar lingua, 1525), fino ad Alessandro Manzoni, con la terza e definitiva edizione detta “Quarantana” del suo I promessi sposi, 1842 – che sarebbe diventato il testo di riferimento per la prosa italiana – nella cui introduzione manifesta di aver voluto «sciacquare i panni in Arno», indicando così il suo intento di purificare il linguaggio impiegato nel romanzo da forme dialettali e provinciali.

È importante sapere che la cosiddetta “questione della lingua”[7] affonda le sue radici nel Trecento, precisamente nasce con Dante Alighieri, e attraversa in lungo e in largo i secoli successivi, passando di scrittorio in scrittorio, di corte in corte, sempre tra i letterati, insomma. Sarà legittimo pensare che dovessero occuparsene gli intellettuali, no? Chi meglio di loro? Certo, il fatto è che non ci si poteva aspettare di non incontrare delle resistenze, a questa “lingua decisa a tavolino”: all’alba dell’Unità d’Italia, infatti, la percentuale media di analfabeti rasentava l’80%[8]. È inoltre doveroso sottolineare che all’accettazione della norma unitaria toscanizzata da Manzoni opponeva contrasto l’interferenza dei dialetti, dalle radici ben attecchite nel sostrato linguistico della penisola, i quali tuttavia oggi stanno andando incontro a una lenta ma inesorabile dissoluzione, in primis come conseguenza dell’aumento dei livelli di scolarizzazione. Si rifletta: oggi parlare in dialetto è bollato come qualcosa di negativo, in contesti medio-alti, o no? Suona grezzo, sgarbato. Eppure, il dialetto simboleggia comunque un baluardo d’identità locale da difendere, da custodire, prima che i funzionari del Grande Fratello ci torturino nella Stanza 101 fino a farci credere non solo che 2 + 2 = 5, ma che l’italiano che parliamo oggi sia nato esattamente così com’è, e che sia l’unica varietà linguistica presente e socio-politicamente accettata sull’intero territorio nazionale. L’ennesima dimostrazione di quanto sia importante conoscere il passato, perché il revisionismo storico passa anche semplicemente attraverso l’ignoranza e – ancor peggio – la voglia di ignorare, il preferire di non sapere, quasi per proteggersi dall’impatto della verità storica.

E se si volesse fare un balzo ancor più indietro nel tempo? Se invece si pensasse a un procedimento di diffusione capillare di una lingua, non necessariamente imposta dall’alto, ma legata al suo prestigio socioculturale e a motivazioni d’ordine pratico, come non ricordare quanto accaduto con il latino, ai tempi della Roma imperiale? È bene specificare che le popolazioni locali conquistate, infatti, iniziavano ad apprenderlo e a parlarlo spontaneamente, non vi furono costrette: oggi si potrebbe definirlo come “lingua franca”, utilizzando un’espressione molto comune che di solito applichiamo a una lingua che, oramai, un po’ tutti ci sentiamo in dovere di imparare non solo in maniera adeguata, sufficiente, ma auspicabilmente eccellente: l’inglese, obviously. Nessuno ci costringe ad apprenderlo, ma quante volte ci viene richiesto di certificare la nostra “idoneità” – letteralmente – alla conoscenza di un livello B2 di inglese? Quante volte “fa curriculum” o “fa punteggio”? Si tratta pur sempre di una questione di scelte, non di coercizione: se non ci si adegua, però, semplicemente ci si precluderà qualcosa. La convalida di un’“idoneità” all’università, l’accesso a una graduatoria o ad un posto di lavoro, la creazione di una rete di contatti all’estero, e così via. Ma, ancor più e ancor prima di tutte queste circostanze, ci si precluderebbe una fruizione “completa” in ambito tecnologico, anzi, più specificatamente digitale: l’inglese è la lingua dell’informatica, ma ancor più del Web – ecco, appunto – e dei social network. Il linguista David Crystal, nel suo Language and the Internet (2006), ha coniato il termine «Netspeak» («Gergo di Internet» italianizzato) per designare «la lingua della rete telematica, l’inglese di Internet»[9], improntata principalmente a soluzioni brachilogiche, semplificatorie del processo di scrittura su tastiera. Alcune caratteristiche di questa varietà linguistica sono intuitive, si pensi alle abbreviazioni, all’utilizzo delle sole minuscole, a quello delle emoticon, ai frequenti neologismi, coniati sulle stesse piattaforme social e diffusi in maniera virale. Anche in questa circostanza, o ci si adegua, mettendosi al passo con le abitudini linguistiche degli internauti, o si è irrimediabilmente esclusi da qualche opportunità. Anche quella, banalmente, di capire di cosa si sta scrivendo, cosa si sta intendendo. Anche qualora non lo si voglia, l’utilizzo dei social pone inevitabilmente nella condizione di entrare in contatto con il «Netspeak», e, in determinati casi, ci si può sentire “obbligati” a masticarlo, se non a parlarlo fluentemente. Non sarà forse il caso degli ultraventenni/ultratrentenni o su di lì, ma si pensi a un adolescente o a un preadolescente, avido lettore di classici della letteratura europea, educato in questo modo dalla mamma, insegnante di Lettere al liceo che al compleanno gli regalava puntualmente un nuovo mattone che ben poteva prestarsi a fungere da piedistallo per i Gormiti, ma che poi effettivamente veniva letto, con tutte le difficoltà che leggere Melville o Stevenson a undici anni comporta. Ecco, questo ragazzino riceve il suo primo cellulare solo perché tutti gli altri compagni di classe ce l’hanno, altrimenti avrebbe dovuto attendere il suo sedicesimo compleanno, come accadeva alla soglia degli anni duemila, se andava bene. La sua schermata home è invasa da decine di notifiche di Instagram, Threads, TikTok, preinstallati nel sistema. Adesso gli toccherà aggiornarsi alla velocità della luce! Da bravo scolaro, una parola al giorno, riuscirà a memorizzarle e a interiorizzarle tutte, non c’è dubbio: influencer, flexare, skillare, triggerare, snitchare, shippare, woke, POV, ghostare, droppare, crush, hype, slay…chissà se, quasi quasi, preferiva Collodi.


[1] Se ne segnalano anche le trasposizioni cinematografiche: Nel 2000 non sorge il sole (1956), regia di Michael Anderson; Orwell 1984 (1984, rispettando nelle riprese i mesi e i luoghi citati da Orwell), regia di Michael Radford, entrambi di produzione britannica; 1984 (2023) di Diana Ringo, produzione cinematografica finlandese/russa.

[2] Il morfema è la più piccola unità linguistica dotata di significato. Un morfema può essere costituito da un solo fonema (ad es., il morfema -i del plurale maschile dei nomi dell’italiano) o più spesso da più fonemi. I morfemi sono costituiti da un significante e un significato: di conseguenza, la forma che veicola il significato di un morfema è rappresentata di norma da un solo elemento, detto morfo, ma è anche possibile che il significato di un morfema sia rappresentato da più morfi. Tali morfi sono denominati allomorfi. Gli allomorfi sono le diverse forme che un morfema assume e che non determinano cambiamenti nel suo significato; il procedimento connesso si chiama allomorfia. Esempio: allomorfi del verbo venire: vengo / verrò / vieni / venni. Le cause dell’allomorfia sono da ricercare nella diacronia: trasformazioni delle parole e dei morfemi dovuta a mutamenti fonetici lungo l’asse del tempo. https://www.treccani.it/enciclopedia/allomorfi_(Enciclopedia-dell’Italiano)/.

[3] Fenomeno morfologico per cui, nell’ambito di uno stesso paradigma, le diverse forme derivano da radici diverse (come nel caso di “acqua” e “idrico”, una forma proveniente dal latino e l’altra dal greco). Per approfondire, si veda https://www.treccani.it/enciclopedia/suppletivismo_(Enciclopedia-dell’Italiano)/.

[4] G. Orwell, 1984, 1949. Nuova traduzione a cura di Stefano Manferlotti (2000), ed. F. Cosmin, p. 249.

[5] G. Orwell, 1984, 1949. Nuova traduzione a cura di Stefano Manferlotti (2000), ed. F. Cosmin, p. 252.

[6] G. Orwell, 1984, 1949. Nuova traduzione a cura di Stefano Manferlotti (2000), ed. F. Cosmin, p. 244. Per ulteriori approfondimenti intorno alla struttura della neolingua, rimando alla lettura integrale dell’Appendice al romanzo.

[7] Rimando a un approfondimento: https://www.treccani.it/enciclopedia/storia-della-lingua_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Analfabetismo.

[9] https://www.treccani.it/vocabolario/netspeak_(Neologismi)/

di Rossella Liotine

Laureata in Lettere Classiche e studentessa di Italianistica e Culture letterarie europee, appassionata di scrittura creativa, etimologia, letteratura.

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *