Gio. Gen 30th, 2025

La filosofia del digitale: all’origine di un’emergenza tecnica

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Il digitale non è più uno strumento, ammesso che lo sia stato in qualche momento della sua vita. Gli individui, attirati dal vortice frenetico della comunicazione individuale di massa, traspongono in progressione pezzi sempre più ampi della loro vita sullo schermo, lasciando i panni critici nella tinozza della vita terrena e trascurando l’analisi del sistema. Risultato: la famosa logica hegeliana del ribaltamento da mezzo a fine raggiunge un’ulteriore declinazione, vedendo il digitale-mezzo estendersi così tanto da includere tutti i mezzi possibili e infine l’utente stesso. Digitale-mezzo lascia il posto a digitale-ambiente.
Osservare il digitale in maniera critica oggi è un dovere tanto importante per i contemporanei quanto l’osservazione della Terra lo era per gli antichi. E basti solo l’ennesimo cambio di ambiente dell’uomo – ulteriore upgrade della seconda natura leopardiana – a determinare l’urgenza dell’imperativo.

ALL’ORIGINE DI TUTTO C’ERA IL BIT – Passo indietro necessario. E se anziché di materia si parlasse d’informazione? Teoria del “Bit Bang“. L‘arché non è più da trovare in un elemento naturale (acqua, terra, fuoco o aria), ma in un bit. L’informazione come grammatica costitutiva dell’universo intero. Filone che nel contesto digitale avrebbe a che fare con la natura stessa della realtà, riducibile in potenza ad una serie di stati binari, 0 e 1, che combinandosi grazie ad un algoritmo generano realtà. Tutto si può spiegare con l’informazione, dai fenomeni fisici ad un banale racconto, e ancora di più: tutto esiste solo grazie alla capacità di essere traducibile in informazione. Questa la teoria del pancomputazionalismo.

Sostenere che l’universo è un grande programma informatico fatto di algoritmi, oltre a rappresentare uno spunto interessante per romanzi e film sci-fi, ha delle ricadute di natura ontologica. Se la radice della realtà è il prodotto informativo di un processo computazionale, si volge lo sguardo verso una metafisica davvero post-novecentesca.
Il modello utilizzato per una realtà di questo tipo ribalta il concetto classico di ontologia, dal momento che è basato su unità distinte e separate (bit), in cui i cambiamenti avvengono in passi ben definiti e ogni intervallo tra i valori è considerato come non continuo (modello discreto). Così corollari di carattere etico, politico e giuridico cadono a iosa (relativismo dell’etica, segmentazione della conoscenza, controllo e manipolazione algoritmica), rendendo la questione uno dei punti nodali di tutta la digitalità.

L’ANAGRAFE DELLA REGISTRAZIONE – La porta d’ingresso del nuovo ambiente digitale è la registrazione. Questo è ciò che dice Maurizio Ferraris: il web, lungi dall’essere solo uno spazio virtuale di connessioni, si fa una “fabbrica di registrazioni“. Il digitale si trasforma in ambiente documentale dove ogni azione, ogni clic, ogni post diviene una traccia indelebile, una sedimentazione ontologica. Se la prima rivoluzione industriale trovava nel vapore il suo cuore pulsante, la rivoluzione digitale si fonda su una proliferazione esponenziale di registrazioni, capaci di ridefinire il tessuto stesso della realtà.
Sbaglia di grosso chi crede che sia solo una questione di memoria, perché si tratta di una riscrittura dell’identità e della responsabilità collettiva. L’archivio digitale, nel suo incessante accumulo, diventa la grammatica del nostro tempo, imponendo un nuovo sguardo filosofico: osservare il digitale è un imperativo non disattendibile. Il “digitale-ambiente” disegna una mappa ontologica dove ogni frammento registrato interroga etica, politica e diritto, mostrando il rovesciamento finale della logica: ciò che un tempo era mezzo diventa il fine, inglobando e trasformando l’umano.

LA DIGITAL DEATH – Da ultimo, l’aspetto più perturbante: la mutazione della morte nell’epoca digitale. La morte si estende in una nuova dimensione: l’eternità della traccia digitale. Il defunto sopravvive nei profili social, nelle piattaforme di memoria virtuale e persino in simulazioni interattive create da algoritmi, dando vita a quella che Davide Sisto definisce una immortalità digitale.

La morte smette di essere la chiusura di un ciclo, e si trasforma in un fenomeno fluido e manipolabile. Il lutto, da esperienza intima e personale, si esternalizza e si condivide, mentre il ricordo, affidato ai server e agli algoritmi, diventa un prodotto collettivo, soggetto alle dinamiche del capitalismo delle piattaforme. Ma chi controlla queste tracce? Chi decide il destino della nostra memoria digitale? E soprattutto, qual è il confine tra l’autenticità del ricordo e l’artificialità di una simulazione postuma?
In questo scenario, siamo costretti a riconsiderare l’ontologia stessa dell’identità. Se l’essere umano è riducibile a un insieme di dati computabili, cosa rimane del ? E cosa accade alla nostra umanità, quando la morte non è più un limite, ma un altro nodo della rete? La digitalizzazione introduce una logica dell’eterno presente, dove il confine tra il vivo e il morto si dissolve in un archivio algoritmico capace di riprodurre voci, gesti e pensieri. Si tratta di una seconda natura, un ulteriore strato leopardiano in cui la cultura tecnologica plasma non solo il nostro modo di vivere, ma anche il nostro modo di morire.

ECCE HOMO- Il punto di caduta è l’inevitabile richiamo alla responsabilità verso un mondo in cui l’etica e la tecnologia s’intrecciano ormai indissolubilmente. Le innovazioni digitali non sono neutre: ogni algoritmo, ogni piattaforma, ogni scelta tecnica implica una dichiarazione di valore, un giudizio implicito sul significato stesso dell’essere umano. È qui che risiede l’urgenza di un dialogo interdisciplinare, una conversazione continua tra la riflessione filosofica e l’ingegneria del futuro. Solo un approccio che ponga la dignità dell’uomo al centro, preservando la sua complessità e irriducibilità a mero dato computabile, può evitare che la tecnica si trasformi in un nuovo Leviatano.
Nell’assoluta, parossistica deriva tecnica dei nostri tempi, abbiamo nascosto e oscurato le fragilità dell’essere umano. Pienamente immersi in una pulsione performativa e spettacolare, ci siamo scordati della irriducibile vulnerabilità dell’uomo. Ecce homo! E quindi la macchina va domata.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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