Vaffanculo.
Una volgarità, una scurrilità. Un termine rozzo, inelegante, inadatto.
Una parola meravigliosa, incisiva, potente.
Vaffanculo è un’espressione potentissima, forse la più potente che esista: è il naufragare di ogni tentativo di compromesso, di dialogo, di mediazione. Vaffanculo è l’ultimo stadio delle cose, il più estremo, il più radicale: rappresenta l’inizio della sovversione, dell’insurrezione del basso verso l’alto, dell’imposizione del
debole sul forte.
Vaffanculo è il primo stadio della lotta, del noi contro loro. È l’inizio dell’odio rivoluzionario: quel disprezzo creativo, costruttivo, intransigente, che col passato vuole tagliare ogni ponte, che sulle ceneri del passato vuole erigere il mondo nuovo.
Nonostante ciò, noi – noi giovani di questo nuovo millennio – dalla parola Vaffanculo siamo totalmente
terrorizzati. Nonostante l’ormai dilagante ateismo, siamo la più cattolica fra le generazioni che abbiano abitato questo mondo. Ma il nostro Dio non è una divinità: non risiede in alcun mondo celeste né, tantomeno, è infinitamente buono. In realtà, un Dio, nonostante il nostro fare smodatamente cattolico, spesse volte non lo abbiamo nemmeno. Siamo cattolici non per religione ma perché dai fedeli al cattolicesimo noi mutuiamo i nostri atteggiamenti: ci percepiamo piccoli, inutili, impotenti rispetto ad un’entità altra ed, in virtù di ciò, ci abbandoniamo a condotte remissive, docili, supplicanti. Siamo ingenui, profondamente: c’illudiamo che l’«alto», l’autorità, l’oppressore si sottrarrà ai propri piani, ai propri scopi per condiscendere a un ristretto gruppo di oppressi piangenti.
Siamo la generazione del pianto silenzioso, che nessuno infastidisce; quel pianto di chi si stringe fra le
ginocchia con gli occhi gonfissimi e la voglia di rompere a pugni il muro. Ma che poi reprime tutto: che lascia che tutto discenda nelle proprie viscere e che nel silenzio si eclissi.
La nostra è una rabbia insulsa, innocua, che mai si riversa su qualcosa, che mai qualcosa rovescia. L’unico figlio visibile della nostra rabbia è un urlo, stridulo, patetico: un urlo di pietà di un bambino ormai esausto; nient’altro, non domandiamo nient’altro se non pietà. Per il nostro oppressore noi non nutriamo
odio, domandiamo unicamente pietà: preghiamo che egli sia umano, che senza alcuna ragione sottometta i propri desideri alle nostre suppliche.
Il nostro, inoltre, è un urlo stridulo ed eccentrico, stonato, incapace di concertarsi con qualunque altra voce. Desidera rimaner da solo, forse per presunzione.
Il dolore divide, divide chiunque: quando soffriamo, ci sembra che nessuno sia mai stato capace di soffrir
così, in maniera tanto intensa. E quando piangiamo, piangiamo soli noi, senza mai mostrare a nessun altro i segni del nostro pianto. Ed altrettanto soli crediamo di doverci rialzare; questo ci è stato insegnato: forti si è soltanto quando ci si rialza da soli, quando si fa della sofferenza il carburante della propria risalita.
Quando si soffre, bisogna soffrire in silenzio, senza arrecar fastidio, senza turbare la gioia altrui.
E della sofferenza la colpa non è che la propria: il problema – il sistema – è sempre esente da giudizi, da critiche; non vien mai chiamato in causa, non si trova mai al banco degli imputati costretto a doversi difendere.
Siamo la generazione che osserva, inerme, il proprio mondo cadere in rovina, che vede la propria vita “bella da morire” infrangersi contro il muro di una società più che mai tormentata dall’egoismo, dalla competizione, dalla prevaricazione.
Noi siamo coloro che osservano e non fiatano. E se fiatano, è per domandare, è per richiedere, per frignare. Per supplicare. È un fiatare pietoso il nostro: suscitiamo tenerezza. Suscitiamo tenerezza nei fautori del sistema che ogni giorno ci uccide. Tenerezza, null’altro.
La verità è che mai nella nostra vita ci si è parato davanti un vero nemico da combattere, da odiare, da
abbattere ad ogni costo. Lo scontro generazionale fra noi ed i nostri genitori non s’è mai combattuto: le
istituzioni – emblematico è l’esempio della scuola e della famiglia, le due massime istituzioni della vita
giovanile – si sono col tempo abbandonate ad un inerte permissivismo, ad una tacita tolleranza che tutto
permette e niente approva.
I nostri genitori – gli adulti – non ci “odiano” più. Se, decenni fa, un diciottenne ed un quarantenne si
rendevano portavoce di Weltanschauung talmente radicali ed opposte da non poter convivere pacificamente senza desiderar di annientarsi l’un l’altra, oggi la situazione è sostanzialmente diversa: l’evoluzione sociale dell’oggi è talmente rapida da non ammettere più il pigro cristallizzarsi delle idee di un giovane ormai invecchiato; a tutt’oggi, come mai prima d’ora, per sopravvivere è necessario lasciarsi travolgere dall’incessante progresso, e ad esso conformarsi.
E, così, noi ed i nostri genitori – il mondo adulto – finiamo per assomigliarci sempre di più, iniziando a
spartire idoli e modi di fare, ci scimmiottiamo gli uni con gli altri, fino a non arrivar più a comprendere dove finisce il loro mondo e dove inizia il nostro. Spesso, addirittura, gli adulti finiscono per invidiarci: per desiderar di esser come noi, di esser noi. Non abbiamo modelli contro cui lottare, modelli da superare, da disprezzare, da guardare con disgusto.
Siamo una generazione priva – o, meglio, privata – della propria fantasia. Non abbiamo la fantasia
necessaria a pensare un mondo diverso, utopico, che ci persuada a lottare; siamo assuefatti alla tacita
tolleranza di cui questo sistema s’è oramai fregiato: siamo abituati a chiedere, a domandare, per ricevere,
mai a pretendere.
Siamo stati educati a non pensare oltre le colonne d’Ercole del “no” perché i sì son stati fin troppi, ad
accettare i limiti perché in fondo non eran soffocanti, perché ci permettevano di perseguire i nostri fini senza particolari problemi. Siamo stati addestrati ad essere creativi secondo i dettami imposti, a pensare quando ci è ordinato, a creare entro i limiti ed a cercare un compromesso quando li oltrepassiamo.
È una mentalità militare la nostra, alla stregua del fascismo: operiamo senza domandare perché, in fondo,
obbedire è comodo.
E così, derubati della nostra facoltà di immaginare un mondo diverso, ci siamo assuefatti all’idea che il
mondo così sia e così debba essere: una sorta di trasposizione in chiave sociale del leitmotiv della filosofia
hegeliana il reale è razionale, il razionale è reale. Ogni elemento dello status quo vigente è assolutamente
legittimo, provare a metterlo in discussione non è che un’eresia. Ogni tentativo di lotta è futile, vano e
chiunque provi a battersi contro qualcosa non è che un ridicolo illuso.
Ma, nell’attuale società, il male serpeggia senza più mimetizzarsi: di nascondersi, camuffarsi non ne ha più
motivo. Lo guardiamo in faccia ogni giorno ed, indifferenti, voltiamo lo sguardo, recitando una patetica cecità.
E preghiamo. Preghiamo che quel male non colpisca noi, che non ci costringa a guardarlo in faccia.
Ma qualcuno da quel male prima o poi viene colpito. E quando accade, quando tutto ciò fa notizia, solo in
quel momento, una parte di noi s’indigna abbastanza da risvegliarsi dal proprio sonno d’indifferenza: solo e soltanto in quel momento, una parte di noi inizia ad acquisire la consapevolezza necessaria a mettere in
discussione la natura stessa di questo sistema.
Ed è qui che la supplica comincia: il «basso» prova vanamente a farsi ascoltare mentre l’«alto» si mostra
limitatamente comprensivo affinché le trascurabili proteste del «basso» non assumano entità preoccupanti. Accudisce la carica rivoluzionaria di quelle richieste. Ma dopo qualche giorno di indignazione e qualche protesta sporadica e di limitate proporzioni, tutto sfocia nel silenzio, ed anche la morte indotta da un sistema che dovrebbe esserci «padre» diviene normalità.
E la disillusione così si sparge a macchia d’olio fra le menti dei più giovani, relegando ogni protesta, ogni
rivendicazione a trastullo di un ristretto gruppo di illusi ed elevando il sadomasochismo sadomasochista
come unica soluzione per un quieto vivere.
Sì, sadomasochisti: la nostra è una generazione di sadomasochisti. L’erronea e nefasta natura di questo
sistema competitivo fin nel midollo la conosciamo bene, la sperimentiamo ogni giorno sulla nostra pelle;
alcuni fra noi dalla sfrenata “corsa sistemica” che ci viene imposta ne sono rimasti traumatizzati, altri
addirittura uccisi. Ma, nonostante ciò, pochi – troppi pochi – s’oppongono.
La verità è che non ci opponiamo perché non abbiamo gli strumenti per farlo, perché sin dalla nascita siamo stati frugati della facoltà, del coraggio di immaginare un’alternativa.
Siamo costretti a sopravvivere soffrendo, consapevoli dell’entità della nostra sofferenza e consapevoli,
soprattutto, della nostra impotenza nei confronti del nostro dolore.
E così anche noi, anche noi gente consapevole di tutte le fallacie di questo mondo, finiamo per adattarci, per soffocare la nostra insoddisfazione e conformarci a tutto quello che abbiamo sempre odiato. Diventiamo ingranaggi, diventiamo “propaganda”: a causa del nostro tacito consenso, della nostra mancata opposizione diventiamo testimoni della legittimità di questo sistema, condannando le future generazioni ad un eterno circolo vizioso.
Tutto questo accade perché noi non siamo capaci di dire VAFFANCULO: perché non siamo capaci, anziché
supplicare, di pretendere. Di pretendere che il sistema, ciò che ci dovrebbe nobilitare e rendere umani finisca per ucciderci. Perché non siamo capaci di rendere il nostro pianto silenzioso, pietoso un urlo di rivolta, coordinato con migliaia, milioni di altre urla rivoltose che, tutte insieme, all’unisono, si trasformano in uno sterminato coro d’insoddisfazione.
Un coro che, unito e forte, consapevole di poter cambiare personalmente ciò che lo rende insoddisfatto,
impaurisce l’alto, il forte, il potente – che ormai, sguarnito del tacito consenso delle masse, molto potente
non lo è più. Un coro capace di urlare VAFFANCULO, con le parole e con le azioni: un coro, un insieme di
persone, di umani che provano odio, odio rivoluzionario che permette loro di non dover più supplicare ma di poter imporre autonomamente un cambiamento, un progresso.
E allora non lasciatevi spaventare. Abbiate il coraggio di dire vaffanculo.