Gio. Nov 21st, 2024

Una tazzina di caffè: dal campo al tavolo, l’impronta idrica di una cultura

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«Io per esempio, professò, a tutto rinunzierei, tranne a questa tazzina di caffè presa tranquillamente fuori al balcone dopo quella mezzoretta di sonno che uno s’ha fatto dopo pranzo (…)», inizia così lo splendido monologo di Eduardo De Filippo sul significato del caffè. Qui Eduardo, rompendo magistralmente la quarta parete, si rivolge ad un suo dirimpettaio, che però non compare né risponde mai nella scena, chiacchierando dell’importanza di questa fenomenale bevanda.
In tutto il Sud d’Italia si sa che dietro ad una tazzina di caffè non c’è mai il semplice momento della bevuta. Fosse solo quello, uno se lo porterebbe in giro, magari in un bel bicchierone, o in una bottiglia chissà, e lo berrebbe di tanto in tanto come fanno gli americani. Invece no: il caffè è una cifra culturale che presuppone l’incontro, la chiacchierata, la riflessione, il pettegolezzo e la coltivazione di una serena abitudinarietà che scandisce la giornata. Il caffè al Sud non è una bevanda, ma un’istituzione.

Tuttavia, in un mondo sempre più interconnesso e complesso come il nostro, ci sono dei riflessi, delle colorature che non si possono più ignorare. Tra queste a primeggiare è il consumo di acqua. I lettori non hanno, forse, nemmeno lontanamente idea di quanta acqua sia presente in una minuscola tazzina di caffè. E non parlo, si badi bene, dell’acqua necessaria alla mescita o alla fuoriuscita del caffè dalla moka, nient’affatto. Alludo piuttosto a tutta l’acqua necessaria alle fasi del processo produttivo della bevanda, dal campo alla tazzina. Ecco, proprio a questo riguardo, il Water Footprint Network sostiene che per riempire una tazzina di caffè siano necessari in media 140 litri d’acqua. Quest’acqua, che noi comunissimi profani ignoriamo spesso, è stata definita dagli accademici «virtuale», e rappresenta la chiave fondamentale per comprendere a pieno l’impatto idrologico («impronta idrica») di alcune delle nostre più comuni abitudini.

ORIGINI DEL CAFFE’ NELLA CULTURA ITALIANA – Il caffè in Italia non è stato sempre consumato. Al contrario, è arrivato sulla penisola verso la metà del Seicento. La prima bottega del caffè – antesignana dei nostri più moderni bar – nacque a Venezia nel 1645, ed ebbe una portata davvero rivoluzionaria per tutto il secolo successivo.

Bisogna qui considerare che il Settecento fu secolo “crinale” nella storia dell’umanità, sia per la metamorfosi delle abitudini che per l’evoluzione della produzione industriale. Il consolidamento delle rotte di commercio transoceaniche (due in particolare: una verso le Americhe e l’altra verso le Indie), e l’incremento della capacità di spesa dovuto ai mutamenti dei metodi di coltivazione, ebbero il merito di incrementare il consumo di certi prodotti che prima venivano del tutto ignorati, come il caffè.
Proliferarono così dei punti di ritrovo in cui la gente poteva sedersi, chiacchierare, fare militanza politica, creare riviste e informarsi sugli eventi più importanti che avvenivano in società. Proprio qui, nelle botteghe del caffè, cominciò a mettere radice l’essenza di un’abitudine che si fece nei secoli successivi vera e propria istituzione.

Da Venezia e dai territori ottomani il caffè giunse sino al centralissimo porto di Napoli. Lì che conobbe una diffusione e uno sviluppo davvero considerevoli. Non è infatti un caso che l’invenzione della “cuccumella” (caffettiera) – in realtà di origine francese – ebbe una notevole diffusione proprio nella cultura partenopea, dove il caffè aveva ammaliato larga parte della popolazione dabbene.

Questa innovazione fu in grado di attribuire al processo di preparazione del caffè una forte connotazione ritualistica, caratterizzata dalla pazienza, dall’attesa e dall’importanza dell’incontro propedeutico alla mescita. Intorno al caffè iniziava così a costituirsi un vero e proprio campo semantico, capace di tracimare al di là della mera bevuta.
In contrapposizione alle consunte, logore abitudini cortigiane, la frequentazione della bottega del caffè diventava un vero e proprio status symbol della borghesia italiana. Tutto ciò ne favoriva la diffusione, ma al tempo stesso ne oscurava le ricadute di carattere ambientale. Aspetto che solo oggi, con un’emergenza idrica sempre più incipiente, siamo in grado di osservare in tutta la sua evidenza.

FENOMENOLOGIA DI UN VIAGGIO: DAL CAMPO AL TAVOLO – Come tutti i prodotti del mercato, il caffè segue un lungo, lunghissimo viaggio prima di farsi tazzina. Le origini di tutto sono nei paesi che ne esportano principalmente i chicchi: Brasile, Colombia, Etiopia e altri.



Subito dopo la raccolta dei chicchi inizia la fase di lavorazione, in cui sono necessari un accurato lavaggio e dei processi di fermentazione, che comportano un ulteriore consumo di acqua. Solo per la fase di lavaggio, che rappresenta un processo molto pregiato alle volte, sono necessari centinaia di litri d’acqua per un solo chilogrammo di chicchi. Dopo il lavaggio inizia la fermentazione, necessaria a garantire il profilo aromatico del caffè, in cui sono necessarie quantità di acqua decisamente minori, perlopiù utilizzate per mantenere i livelli di umidità necessari. L’ultima fase è l’essiccazione, per antonomasia estranea al consumo di acqua, ma, a discapito di quanto si possa pensare, alle volte si serve di essiccatori meccanici, che contribuiscono ad aggravare l’impronta idrica.

Questo lungo viaggio ritrova il suo epilogo nella fase di trasporto e torrefazione, caratterizzata da un consumo d’acqua inferiore ma comunque presente. Difatti il calcolo dell’acqua virtuale impiegata per il trasporto tiene conto del consumo di energia necessaria alla percorrenza delle rotte marine, terrestri o aeree. E lo stesso discorso vale per la torrefazione, che viene effettuata a temperature molto elevate e comporta un considerevole consumo di energia. Da ultimo, il caffè tostato viene imballato e distribuito, consumando l’acqua necessaria alla produzione del materiale di imballaggio e alla spedizione.

Il Water Footprint Network (WFN), tenendo conto degli elementi variabili di ogni territorio, stima che il lungo viaggio di un chilogrammo di chicchi di caffè porti con sé una quantità d’acqua virtuale che va dagli 11.000 ai 18.900 litri. Per intenderci, il fiume Po ha una portata media di circa 1,5 milioni di litri d’acqua, gli stessi che servono per produrre solo 81 chilogrammi di chicchi di caffè.

UN ESEMPIO PRATICO SULLE RICADUTE ECONOMICHE – Tutta la faccenda dell’acqua virtuale sarebbe solo un velleitario esercizio di stile, se non fosse poi direttamente correlata alle crisi idriche dei paesi produttori. C’è da dire infatti che persino il consumo (apparentemente innocuo) di una bevanda come il caffè, nelle condizioni attuali, provoca un aumento della crisi climatica e un’accentuazione delle diseguaglianze.

Vediamo di essere più chiari con un esempio. Poniamo il caso di un commerciante napoletano di caffè che deve acquistare 500 chilogrammi di chicchi da un produttore brasiliano, nello specifico della regione di Minas Gerais. Lì la produzione dei chicchi di caffè necessita di una elevata quantità d’acqua, e durante la stagione secca il produttore ricorre all’irrigazione intensiva. Per produrre quei 500 chilogrammi il brasiliano ha consumato più o meno 9,5 milioni di litri di acqua dolce (pari alla quantità d’acqua che scorre per 45 secondi nel Rio delle Amazzoni). Quest’acqua virtuale è sottratta al territorio del Brasile, non al territorio italiano, dove il prodotto semilavorato arriva già bell’e pronto. Una volta che il carico arriva a Napoli, il nostro commerciante compie un’ultima fase di trasformazione del prodotto: lo impacchetta e lo imbusta con il suo marchio, consumando una quantità d’acqua davvero minimale rispetto a quella che è stata necessaria alla sua produzione. Dopodiché lo mette sul mercato europeo e statunitense e lo vende come prodotto finito.

La grande diseguaglianza sta proprio nel fatto che il produttore brasiliano per esportare un prodotto semilavorato a basso valore aggiunto ha prodotto nel suo paese un’impronta idrica considerevole, mentre il commerciante italiano per vendere un prodotto finito a valore aggiunto relativamente alto ha inflitto al suo paese un’impronta idrica decisamente più modesta.

LA POESIA DELLA VITA, QUESTO NUN E’ CAFE’… – Dopo aver condotto un lungo, lunghissimo viaggio al seguito dei chicchi di caffè e della marea d’acqua che si portano appresso, non possiamo che ritornare sul balcone di Eduardo. Lì magari il maestro sta ancora sorseggiando la sua consueta tazzina di caffè, la cui preparazione, a ragion veduta, ha voluto definire “poesia della vita”.

Quella tazzina di caffè ha costruito senso intorno a sé sino a diventare un’istituzione culturale, al punto che quasi passa in secondo piano tutto quell’oceano che si porta dietro. Ma sebbene non possiamo mai pensare di espungerla dalle nostre vite, potremmo magari prestare più attenzione ai processi di produzione e alla sostenibilità idrica della catena. Perché se per darmi una tazzina prosciuga un fiume intero, nun è caffè, è na ruina.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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