Parlare di omosessualità nel mondo antico non è semplice, soprattutto perché in realtà non ne esisteva la concezione. Centrale era la dicotomia attività-passività, e in base a quella venivano categorizzati i rapporti sessuali. L’eros tra uomini in Grecia risale ad un’epoca remotissima, forse anche a prima dell’età del bronzo, in un contesto probabilmente di tipo iniziatico: come step fondamentale per diventare adulto, un giovane maschio doveva svolgere un ruolo passivo in un rapporto erotico con un altro uomo, più grande d’età. Non è ancora del tutto chiara, tuttavia, la valenza della pederastia (l’unione tra un maschio adulto e un ragazzo) in qualità di rito di passaggio e momento di crescita per l’individuo. In ogni caso, il sesso tra uomini, dall’età del bronzo in poi, è sempre stato una costante nella storia dell’antica Grecia e dopo dell’antica Roma, seppur con una rilevante evoluzione e varietà di forme.
L’articolo di oggi, invece, si sofferma su un’eccezione, un unicum nella storia classica, una rottura di paradigmi: l’amore tra donne. L’omosessualità femminile fu un tabù nella maggior parte della storia greco-romana, dunque esisteva, ma soprattutto in forme clandestine, nascoste. Sull’argomento regna perlopiù il silenzio delle fonti antiche, visto che agli autori greci e romani non importava molto documentare il mondo femminile, e la possibilità che due donne avessero un rapporto sessuale o un legame amoroso era inconcepibile, se non addirittura ridicola e grottesca. Non a caso Platone chiamava una donna attratta da altre donne “tribade” (da tribein, «sfregare»), una parola densa di significati sinistri, che evocava qualcosa di selvaggio, barbarico, incontrollato.[1]
Attenzione, però: non è sempre stato così. Tra il VII e il VI secolo avanti Cristo, la Grecia attraversava un’epoca di passaggio, caratterizzata da cambiamenti profondi. Da un’età oscura, della quale ci sono rimaste pochissime testimonianze archeologiche e in cui si perse addirittura l’uso della scrittura, si passò alle prime città-stato, le poleis, con un ordinamento giuridico e politico complesso.
Anche in poesia ci furono dei cambiamenti, tra cui la crescente importanza dell’iniziativa individuale, al punto che è diventato immortale il nome di una poetessa, Saffo, le cui opere cantano di amori tra donne. Amori appassionati, sentiti, ma soprattutto riconosciuti alla luce del sole dalla società del tempo e avvertiti come del tutto naturali. In poche parole, le poesie di Saffo sono l’unica testimonianza di un’epoca in cui erano accettati e condivisi i rapporti omoerotici femminili, per giunta dalla voce di una donna che visse questi amori in prima persona.
Saffo nacque sull’isola di Lesbo, vicina alle coste dell’odierna Turchia, ed era la maestra di un tìaso, ovvero una specie di collegio per nobili ragazze: qui vivevano in comunità fino al matrimonio, mentre apprendevano l’arte della musica e del canto, imparavano a sedurre e a curare la loro bellezza, ricevevano anche una specie di educazione emotiva. Si trattava di un ambiente religioso e sotto la protezione di una divinità, Afrodite, di cui era la sacerdotessa Saffo stessa, come sembra anche confermare una sua famosa ode[2] in onore della dea. Il tìaso di Saffo non era l’unico a Lesbo, tanto che in diversi frammenti la poetessa serbava parole aspre contro certe sue rivali, Gorgo e Andromeda, a capo di altri tìasi dell’isola: si contendevano le allieve più belle e desiderabili e il primato di migliore scuola, in nome dell’ideale dell’abrosyna («raffinatezza, grazia discreta»), valore etico centrale.
Il tìaso, l’ambiente per il quale Saffo scriveva i suoi componimenti, svolgeva indubbiamente un ruolo religioso ed educativo, ma, oltre a ciò, era anche previsto e normalizzato l’insorgere di sentimenti, tra le allieve stesse o tra la maestra e le allieve. Forse, erano le uniche passioni sincere che queste donne avrebbero conosciuto nella loro vita, dato che il matrimonio era pianificato dalle famiglie e raramente al suo interno nasceva l’amore, che quindi veniva spesso ricercato al di fuori (cosa non facile, come vedremo).
Una precisazione: non possiamo prendere alla lettera tutto ciò che leggiamo nelle poesie di Saffo, poiché sono inevitabilmente influenzate da un certo grado di finzione letteraria. Di conseguenza, bisogna prestare attenzione a non interpretarle solo come memoria autobiografica o sfoghi dell’intimità emotiva della poetessa, per una ragione legata alla destinazione dei componimenti, i quali probabilmente venivano letti ad alta voce in contesti in cui allieve e maestra si ritrovavano tutte insieme, come parte integrante del programma di educazione affettiva del tìaso.
Tuttavia, a lungo gli studi sugli antichi sono stati ammantati da una pruderie moralistica, per cui è stata negata l’esistenza di amori omosessuali nel mondo greco-romano, tradizionalmente concepito come un modello in linea con i valori borghesi e cristiani. Serve sdoganare questa visione antiquata, partendo dal presupposto dell’enorme alterità del mondo antico rispetto al nostro, inclusa la sfera della sessualità. Detto ciò, è quindi difficile negare che l’estro poetico di Saffo si origini proprio da amori reali verso altre donne, amori descritti in versi meravigliosi e ancora oggi difficilmente eguagliabili, modello per la poesia di tutti i tempi. Si può citare ad esempio l’inizio della splendida “Ode della gelosia”, che tradusse in latino il famoso poeta latino Catullo:
Mi sembra uguale agli dei / l’uomo che siede davanti a te / e ti ascolta / mentre parli dolcemente / e ridi amabilmente, […].[3]
Il rapporto omoerotico tra maestra e allieva non era nulla di nuovo nel mondo greco: in ambito maschile esisteva da secoli, a Lesbo nei circoli maschili detti eterìe, costituite dai più importanti aristocratici accomunati dalle stesse idee politiche. Eppure, in che senso l’amore tra due donne le preparava al matrimonio? Se già è difficile capire il retroterra antropologico alla base dell’omosessualità maschile, che dire di quella femminile? Il fatto è che il rapporto tra due uomini, calandoci nella mentalità greca, offre spunti simbolici, proprio perché c’erano un ruolo attivo e uno passivo ben riconoscibili: ad esempio, così si implicava forse una specie di trasmissione di virilità e potenza. Il rapporto omoerotico tra due ragazze è invece “alla pari”, quindi non presta il fianco a nessuna interpretazione simbolica e neanche sociale, se pensiamo che la donna, dopo il matrimonio, era rimessa alla potestà del marito. Per questi motivi, Eva Cantarella[4] ipotizza che, nella Lesbo tra 700 e 500 a.C., questi circoli femminili nacquero come un calco di quelli maschili: da qui l’insistenza delle fonti contemporanee e posteriori sull’aspetto educativo di tali rapporti, speculare a quello dell’omosessualità maschile.
Nonostante tutto, a un certo punto, i tìasi scomparvero, e l’omosessualità femminile diventò clandestina e non accettata dalla comunità. Ciò è legato all’evoluzione della condizione femminile in Grecia – o per meglio dire “involuzione” – poiché infatti le donne sembravano godere di maggiori libertà nell’età micenea e preclassica, rispetto al periodo successivo. A mo’ di esempi, leggiamo, nell’Iliade, di Andromaca, che liberamente girava per la città di Troia, o di Nausicaa, nell’Odissea, che si recava da sola con le sue ancelle alla fonte presso cui avrebbe incontrato Ulisse, dove giocarono a palla e fecero il bagno mentre aspettavano che i panni si asciugassero. Ebbene, Saffo era più vicina a quest’epoca che a quella posteriore. Nell’Atene classica, invece, le donne dovevano restare perennemente rinchiuse in una sezione della casa, il gineceo, e potevano uscire soltanto in occasione di feste religiose o funerali, peraltro doverosamente coperte e velate. Il matrimonio avveniva in età precoce e divenne l’unico evento fondamentale nella vita della donna: c’era posto solo per un legame fondato su dedizione, rispetto, ossequio, ma non sulla passione. Calò il silenzio sugli amori femminili, che immaginiamo sopravvisse perlopiù in ceti sociali particolarmente elevati e nell’ambito della prostituzione.
Ecco, quindi, la preziosità della voce di Saffo, che ancora oggi vive e ci canta passioni destinate a non morire più, rara voce che ci illumina su una realtà destinata altrimenti a restare sepolta e oscura.
[1] La parola “tribade” si trova nel mito sull’origine dell’amore, raccontato nel dialogo del Simposio da uno dei commensali, Aristofane (il poeta comico). Il mito spiegava che in origine esistevano degli esseri dal sesso doppio, in seguito divisi: da allora, sulla base della metà da cui discendeva, ciascuno si innamorava del discendente dell’altra metà. Così, l’amore tra un uomo e una donna derivava da un essere androgino, quello tra due uomini o tra due donne rispettivamente da un essere con due sessi maschili o femminili. Di tutte queste combinazioni, solo gli amori tra donne sono descritti negativamente.
[2] Fr. 1 Voigt. Si può leggere in greco e in traduzione su un sito dedicato interamente alla poetessa di Lesbo, https://www.sappho.education/knowledge-base/fr-1-voigt/.
[3] Fr. 31 Voigt. https://www.sappho.education/knowledge-base/fr-31-voigt/.
[4] Esperta di diritto greco e romano, si è occupata di sessualità nell’antichità nel libro Secondo Natura. La bisessualità nel mondo antico (Feltrinelli 2016). Il suo volume è la principale fonte per questo articolo.