Gio. Set 19th, 2024

Giovani d’oggi: storia, letteratura e politica della questione giovanile

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La giovinezza costituisce da sempre oggetto di profonda riflessione da parte degli anziani, è così da sempre e pare che così sarà anche per l’avvenire. Eppure da qualche secolo, per una certa naturale contagiosità del ragionamento, questo uzzolo pervade in maniera preponderante soprattutto i meno attempati. Così anche il giovane d’oggi ha cominciato domandarsi che cos’è la giovinezza, e quale sia la sua collocazione sociale e politica nel tempo in divenire. Osservandosi si è accorto d’essere diverso dalle mille proiezioni di sé che l’ambiente tecnico lo ha educato a riflettere, e la domanda escatologica è diventata ineludibile: dove va la gioventù?
Ma questo cruccio non è ossessione solo dei giovani. Sin dalla nascita della società e via via con il rafforzarsi degli imperi e degli stati nazionali, furono proprio i governi ad interrogarsi sul ruolo che la gioventù potesse avere all’interno di un disegno più ambizioso per l’avvenire. Così, guizzando dalla mente di un poeta a quella d’un governante, e da quella d’un governante a quella di uno scrittore, la «questione giovanile» ha abitato le pagine più profonde della storia, della letteratura e della politica.

LA POESIA DEL TRASPORTO – Come ogni concetto anche la giovinezza muta il suo aspetto a seconda della prospettiva da cui la si guardi. Se dovessimo osservarla, ad esempio, con gli occhi di un anziano rassegnato, di certo prenderemmo in prestito le parole di Leopold Staff. Il filosofo e scrittore polacco, esponente della corrente Giovane Polonia, osservò la giovinezza dal «tenebroso fiume» della vecchiaia. Egli riconobbe nel suo io del passato degli aspetti caratteriali ed esistenziali che tendevano all’antistoricismo e che miravano a descrivere un concetto trascendentale di gioventù. Quegli «sfrenati slanci» e quelle «alate ambizioni» sono la stoffa comune su cui da sempre si tesse la trama della giovinezza. Il giovane era per Staff un romantico, un estremista del sentimento e allo stesso tempo un uomo capace di smarrirsi. Proprio come nell’Holden di J.D. Salinger, la fragilità giovanile si staglia come naturale riflesso della forza nuda e spontanea della natura umana che si schiude al divenire.

Quando invece volessimo guardarla con il ghigno scomodo di un impavido attempato, allora andremmo a bussare alla porta di Sandro Penna. Per lui la giovinezza era «amare i sensi e non pentirsi», continuando a vagheggiarla con il solito, adolescente sorrisetto beffardo. Anche Penna scrisse quei versi in età anziana, quando la sua notte ascoltava «dileguare ogni fanciullo»; lui, adulto «arso completamente dalla vita», che in essa viveva «felice e dissolto». E proprio in quella discola noncuranza verso il tempo trascorso si ritracciavano gli strascichi di una giovinezza non ancora svanita, quando non eterna e incommensurabile.

Dall’incrocio di questi due poeti così diversi nasce un’immagine del giovane come “trasportato”, che lascia da parte consapevolmente l’età biologica e si concentra sullo stato mentale del soggetto. Proprio come disse nel ’45 il generale Douglas MacArthur nel celeberrimo discorso ai cadetti del West Point, qui la giovinezza non sembra essere «un periodo della vita», ma uno «stato dello spirito». Tale stato, tuttavia, non rimane fumoso né nei versi di Penna né in quelli di Staff: si veste di panni lucenti, di ambizioni coraggiose e di una laboriosità encomiabile. Essa è vis dello spirito, fulgidezza dell’anima.

LE PRIME ORGANIZZAZIONI GIOVANILI – Venendo alla storia, possiamo sostenere che per i giovani il Novecento fu senz’altro un «secolo lungo» – come asserì Patrizia Dogliani, in un’ottica speculare al «secolo breve» hobsbawmiano. Quantunque sia impossibile tracciare un bilancio sintetico e imparziale di cent’anni di storia in meno di cento righe d’inchiostro (seppur digitale), ci è concesso d’individuare alla scaturigine del movimentismo giovanile alcuni momenti storici rilevanti, tutti intimamente avvolti da quella tela trascendentale – o, se si vuole, transgiovanile – descritta così bene da Staff e Penna.

Le prime organizzazioni giovanili germogliarono grazie agli empiti antimodernisti di fine Ottocento. Erano gli anni del Wandervögel (1897), movimento culturale nato con l’obiettivo di opporsi alle convenzioni sociali, all’autoritarismo e al paternalismo. La pugnace opposizione allo status quo di quei giovanotti berlinesi era tuttavia in grado di trasformarsi anche in proposta per l’avvenire: chiedevano maggiore mobilità sociale e libertà di comportamento, mirando al compimento di un vero e proprio ritorno alla Germania rurale e comunitaria (Gemeinschaft contrapposta a Gesellsschaft). Proposito contiguo, quando non sovrapponibile, alla corrente culturale del primo ambientalismo di inizio Ottocento.

Seguirono l’esperimento scoutista di Robert Baden-Powell, sulla scorta del «riarmo morale» della Gran Bretagna bianca e colonizzatrice; il movimento giovanile sionista di Albert Edward Goldsmid, ibrido che attinse e dal Wandervögel e dallo scoutismo di Baden-Powell; e le prime organizzazioni giovanili operaie e socialiste, il cui apogeo fu la nascita dell’Internazionale giovanile socialista (Igs) nel 1907.
In questo frangente storico, delimitabile tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, le compagini giovanili occidentali cominciarono a sperimentare forme di organizzazione autonome e disincagliate dal mondo istituzionalizzato.
Se proprio s’intendesse rintracciare un dato comune a tutti questi movimenti, lo si potrebbe ritrovare nella natura intimamente rivoluzionaria e antagonista rispetto all’ordine costituito, comune all’epoca a tutto ciò che era “giovanile”.

GLI ANNI DELLA REPRESSIONE E DEI REGIMI – Sebbene nel primo Novecento gli animi fossero agitati da conflitti sociali di portata ben più ampia, le opinioni pubbliche di moltissimi paesi del mondo percepirono come principale fattore destabilizzante la «gioventù pericolosa». L’elevata fragilità del sistema sociale, l’incremento demografico, la trasformazione industriale, gli elevati indici di disoccupazione e la frammentazione geopolitica del mondo provocavano un elevato senso di insoddisfazione nella popolazione giovanile. Essa si tradusse in irrequietezza per i giovani e in elevato allarme sociale per “gli anziani”, cosicché furono avviate su larga scala azioni correttive e repressive.

Gli anni successivi videro poi un metodo di gestione della questione giovanile istituzionale e gerarchizzato, che toccò vette militaresche nei due regimi fascisti d’Europa. I fascisti italiani avevano sperimentato sin dal 1920, quando ancora si riunivano sotto l’insegna dei Fasci di combattimento, la creazione dell’Avanguardia studentesca; dopo, nel 1922, avevano costituito i Gruppi universitari fascisti (Guf); e infine, solo con la fascistizzazione dello Stato, avevano potuto dare vita all’Opera nazionale balilla (Onb), ente autonomo con il compito di educare i giovani dagli 8 ai 18 anni.
Di fattura analoga fu l’approccio del nazismo tedesco: cominciarono a nazificare il corpo insegnante, raggiungendo vette del 97% di adesioni; e, una volta assunti i pieni poteri, crearono la Hitlerjunged (gioventù hitleriana), un ente molto simile all’Onb fascista ma costituito unicamente da giovani gerarchi.

In condizioni analoghe versava la gioventù spagnola nella seconda metà degli anni Trenta. Nel 1937, mentre nel paese infuriava la guerra civile, fu creata la prima organizzazione giovanile franchista, ispirata ai balilla italiani e ai Pelayos de España. Dopo la guerra civile, nel 1940, fu istituito il Frente de juventudes, ente istituzionale deputato alla formazione giovanile e alla gerarchizzazione dei ruoli, rimasto in piedi sino al 1961.
Gli anni dei regimi furono per i giovani europei anni di grande indottrinamento istituzionale, in cui la valorizzazione di un concetto di giovinezza sempre più sovrapponibile alla virilità e alla forza bruta maschile si affiancava alla disciplina militaresca e all’obbedienza nei confronti dei superiori gerarchici.

IL ’68 AI GIOVANI – «Siete in ritardo, cari», furono alcune delle prime parole con cui Pier Paolo Pasolini cominciò l’aspra critica (sempre in versi) degli scontri di Valle Giulia. Quell’1 marzo 1968 vide una carneficina, cruenta e inutile come tutte le altre, drappeggiarsi delle pulsioni travolgenti dello scontro di piazza e della rivendicazione universitaria sessantottina. La scaturigine di tutto l’ambaradan era da ritrovare nell’ordine del rettore dell’Università di Roma di far sgomberare gli atenei occupati, che spinse gli universitari a tentare una violenta reconquista e a trovare il confronto diretto con la polizia. Pasolini si schierò inaspettatamente dalla parte dei poliziotti, condannando le violenze dei «figli di papà» universitari, a suo modo di vedere incapaci di ravvisare in quegli scontri un «frammento di lotta di classe» ribaltata.

Quegli scontri – da taluni ancora oggi definiti “battaglia” – furono l’emblema dell’irrequietezza esplosiva del ’68 italiano. Come acutamente sottolinea Patrizia Dogliani, il ’68 «dura almeno dieci anni» e vive differenti fasi di sviluppo (incubazione, emersione ed estremizzazione). Protagonisti indiscussi di questa stagione furono proprio i giovani e gli operai, espressione di una «nuova sinistra» che disprezzava il compromesso politico e valorizzava l’azione di piazza antipartitica. Le proteste sessantottine davano voce e risalto mediatico a rivendicazioni egualitarie e libertarie: il superamento del classismo universitario, la democratizzazione reale della società, la riforma del sistema educativo in senso antiautoritario, e il diritto universale allo studio erano i fulcri su cui ruotavano le argomentazioni dei giovani engagé del ’68.

Il ’68 fu per i giovani italiani l’ultimo grande momento di lotta antagonista contro il potere istituzionale e l’autorità costituita. Ciò che venne dopo potrebbe ascriversi a buon diritto nella compagine di un più ristretto e radicale prolungamento degli empiti alla base delle proteste degli anni Sessanta. Gli anni di piombo e la discesa degli opposti terrorismi – definizione evanescente e chiaramente variabile, quella di terrorismo – rappresentarono piuttosto la chiusura morale, sociale e politica del periodo sessantottino. Da quel momento in poi i giovani dismisero i panni del soggetto, divenendo ostaggio di una politica paternalistica che li relegò al ruolo di oggetto delle riforme.

I GIOVANI (TECNICI) D’OGGI – Parlare dei giovani oggi non è mica facile. E non solo perché spesso si rischia di dire le più consunte banalità, ma anche per via della moltitudine di modi di vedere la giovinezza. Se solo la pelle liscia dei giovani non fosse per gli anziani uno specchio ribaltato a cui si cerca disperatamente di attribuire le sembianze di una fotografia con potestà di ritocco; se solo per i giovani la vecchiezza non fosse una sentenza ingiusta d’un tribunale impostore, in cui la lotta per la vita si traduce nell’esilio dal suo naturale scorrimento. Se solo avessimo negli anni imparato a convivere con il divenire, oggi converremmo un po’ tutti sul concetto di giovinezza. Ma, ahinoi, non è così.

Certo, per chi s’occupa di temi di questo genere sarebbe molto facile aguzzare una stilistica piena d’inganni retorici, di parole fumose, suadenti e di concetti gonfi di una speranza forzatamente positiva; e poi concludere con il solito “nelle vostre mani c’è il futuro del Paese”, o “dell’Europa” o financo “del mondo”. Che importa se la circoscrizione geografica di riferimento non è adeguatamente ponderata sulla base della potenza ipotetica del soggetto a cui è riferito l’appello? Nulla, quando il discorso è inautentico. Ma questo genere di conclusioni non ci aggradano affatto, e sceglieremo piuttosto di consegnarci alla costatazione della condizione attuale, sebbene sia mesta e povera di prospettive.

Considerando i movimenti contemporanei post-sessantottini (No-global, Occupy Wall Street, Fridays for future, Black lives matter e Ultima Generazione) per quello che sono stati, e quindi come epifanie eccezionali in una società non di massa ma massificata, si può scorgere con chiarezza lo scenario della gioventù nostrana. Il sistema di potere tecnico – inteso, come in altri precedenti articoli, nella sua dimensione post-strutturalista – ha tecnicizzato il sapere, frammentandolo in tanti piccoli compartimenti stagni. La scuola da magistra vitae si è trasformata in ancella della tecnica, e le ricadute sono state devastanti per la formazione degli studenti e per la loro capacità di interpretare – per usare ancora una volta un’espressione di Pasquale Villari – la «problematicità del reale». Ne sono derivati una molteplicità di giovani massificati nelle costumanze e nei desideri, e visibilmente incapaci di approcciare alla realtà in maniera olistica e anti-tecnica. Ognuno sa e conosce un solo campo di sapere, financo sino alla paranoia, e il compito di mettere in relazione le differenti tecnicità della conoscenza viene assegnato alla mano invisibile dell’utile, vero e proprio leitmotiv in epoca di postmodernità.

In ultima analisi, il giovane (tecnico) d’oggi è un essere visceralmente spoliticizzato (eunuco politico per necessità d’apparato), tremendamente ignorante innanzi alla vita e funzionalmente conoscitore del suo ruolo nell’apparato tecnico del sapere. I giovani oggi sono funzionari neoassunti del potere tecnico, merce di ricambio all’interno della gigantesca catena di approvvigionamento del potere e della volontà di potenza tecnica.
I giovani d’oggi hanno smarrito il tessuto trascendentale della giovinezza (vis dello spirito), e per questo non potranno garantirsi alcun avvenire libero e consapevole a condizioni immutate. Tale vis dello spirito è necessario che calzi i panni rivoluzionari dell’anti-tecnicità, capace anche di distruggere e di ricostruire. Costi quel che costi. Perché non esistono rivoluzioni senza costi e libertà senza sofferenze.

Nota a margine:
Sicuramente il lettore attento avrà osservato che quest’articolo non ambisce nemmeno lontanamente a riassumere il ruolo della giovinezza nella letteratura, nella storia e nella politica. Esso piuttosto mira a raccontare un particolare punto di vista sul concetto in sé, disegnando una lente d’ingrandimento attraverso cui osservarlo. La parzialità del racconto, incompletezza partigiana e peccaminosa per gli ecumenisti accademici, qui è il prodotto dell’arbitraria scelta autoriale del focus. Parziale e partigiano quindi, come tutto ciò che non è assoluto. Come tutto ciò che non è tecnica.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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