Gio. Dic 26th, 2024

Quando al sud eravamo briganti: colpevoli o innocenti?

5/5 - (2 votes)

Dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, frutto di un travaglio lungo e doloroso, emerge tutta la difficoltà di unire parti diverse della neonata nazione, soprattutto di avvicinare il nord con il sud del paese. Nasce la “questione meridionale“, in realtà già presente prima dell’unificazione, ma immediatamente urgente ed evidente in tutta la sua complessità, e dove colmare il divario tra le due differenti realtà del paese si rivela subito difficoltoso e all’interno del nuovo scenario ritornano i Briganti, diversi da quelli presenti negli anni precedenti. Con il termine Brigantaggio si possono indicare fenomeni eterogenei tra loro: può essere riferito ad assassini, ladri e più in generale a criminali comuni; alla rivolta neoborbonica e alle bande finanziate dai Borbone e dalla corte pontificia -che si ingrossano con gli sbandati dell’esercito borbonico in rotta e di quello dei garibaldini che si è sciolto – pur avendo un obiettivo politico sono etichettate allo stesso modo[1].

«Ci avevano promesso la Repubblica e hanno scambiato un Re con un altro, lasciandoci nella miseria e nelle tasse, come cani rabbiosi, senza terra e senza pane lottiamo per l’ingiustizia! Ladri per disperazione». Questa in sintesi la dichiarazione del noto e spietato generale dei Briganti, Carmine Crocco, nato a Rionero del Vulture in Basilicata, colui che inizialmente si unì all’esercito di Garibaldi per unificare l’Italia. Deluso, tradito e conscio della miserevole condizione del popolo del sud passò dalla parte del re Ferdinando II per riconquistare il meridione, vantando una banda composta da circa mille uomini. Dall’altra parte, il generale, Emilio Pallavicini di Priola, aristocratico sabaudo, militare esperto in operazioni speciali e al comando di reparti schierati nella campagna contro il brigantaggio.

All’indomani del processo di unificazione l’Italia vive una vera e propria guerra civile tra Briganti meridionali, supportati dai Borbone e da una Chiesa contraria al Nuovo Regno e l’esercito piemontese, inviato nel Mezzogiorno in rivolta per sedare la disobbedienza e i disordini. Le condizioni igieniche e sanitarie erano pessime, le abitazioni erano malsane, la mancanza di acqua potabile e la scarsa igiene portavano alla diffusione di molte malattie contagiose dovuta alla mancanza di vitamine, poiché la popolazione mangiava solo alimenti a base di farina di granoturco, come la polenta. Il 70% della popolazione era dedito ai lavori agricoli (con metodi arretrati), mentre il 18% (al Nord) lavorava nell’industria (ceramiche, tessile). L’Italia era un paese economicamente arretrato, sia nel campo agricolo che in quello industriale e solo alcune regioni del settentrione stavano modernizzandosi.

Il fenomeno del Brigantaggio emerse in seguito all’introduzione di misure altamente restrittive come la leva obbligatoria, altamente penalizzante per le famiglie contadine perché strappavano le braccia all’agricoltura e per fuggire alla coscrizione i giovani si davano alla macchia andando ad infoltire le fila dei Briganti. Oltre a questo l’introduzione di carta moneta e di un nuovo regime doganale restrittivo portarono all’aumento del prezzo del pane e del sale. All’interno di questo scenario, che alimentava l’indigenza delle classi più povere, i Briganti si opposero ai potenti che li opprimevano, ma il nuovo governo lo considerò come un movimento contrario all’unità d’Italia, non seppe capire che le vere cause erano invece la miseria, la fame, il disperato bisogno di terra dei contadini. Lo Stato si limitò ad inviare l’esercito per reprimere la rivolta e il brigantaggio fu stroncato dopo una lotta durata 5 anni, che provocò tantissimi morti.

Il Brigantaggio riprese ancora con molta intensità nella primavera del 1862. Il generale Alfonso La Marmora fu nominato prefetto di Napoli e contemporaneamente comandante della Sesta Armata al posto di Cialdini. La Marmora abbandonò la politica del suo predecessore e furono adesso privilegiati gli elementi moderati. Il 15 agosto del 1863 venne emanata una legge eccezionale, detta Legge Pica, dal nome del deputato abruzzese di destra Giuseppe Pica, che durò fino al 31 dicembre 1865 e interessò tutte le province continentali dell’ex Regno delle Due Sicilie (messo in stato d’assedio). Tale legge stabiliva  che in tutte queste province la competenza a giudicare i briganti e i loro complici fosse affidata ai tribunali militari, prometteva riduzioni di pena a chi si fosse costituito, stabiliva l’istituto del domicilio coatto e infine favoriva il cosiddetto pentitismo. I tribunali militari sostituirono quelli ordinari, fu proclamato nelle regioni a rischio lo stato d’assedio, ma in generale la nuova legge andava contro i principi sanciti negli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, che garantivano il principio di uguaglianza dei sudditi di fronte alla legge, nonché la garanzia del giudice naturale.

Celebre antesignano dei Briganti del sud fu don Ciro Annicchiarico di Grottaglie (TA), chiamato Papa Giro, ex prete e maestro di canto, il quale, dopo essere stato accusato di un delitto passionale, fuggì dandosi alla macchia nelle campagne di Martina Franca. Dopo rocambolesche avventure, scorrerie e dinamiche criminali, che lo trasformarono nel padrone assoluto della provincia, fu catturato e giustiziato nella pubblica piazza di Francavilla Fontana l’8 febbraio del 1818, narrano che anche in catene incutesse timore.

Tra i più noti Briganti, vi furono anche numerose brigantesse, la più famosa di è Michelina De Cesare, che seguì il brigante Francesco Guerra capo di una banda che imperversava nel Lazio meridionale, in Campania e in Molise, ma venne uccisa con il suo compagno dalla Guardia Nazionale il 30 agosto 1868.  Nota per la sua foto in posa con un fucile, sarà ancora più ricordata per gli scatti quando era ormai cadavere, con segni evidenti di maltrattamenti sul suo giovane corpo. Ribelle sin dalla nascita, dedita al furto, è l’emblema del destino di molti meridionali dell’epoca, che per sottrarsi alla miseria dovevano scegliere se diventare briganti o emigrati.

Furono vittime o carnefici? Colpevoli o innocenti? Certo è che molti approfittarono del fenomeno per compiere crimini di ogni natura, perché sembrava la strada più semplice, ma alla radice della complessità di un fenomeno che ha lacerato non solo il Sud Italia, ma l’interno paese neonato, ci sono ragioni di ingiustizia più profonda che rappresentano l’incapacità dello Stato di combattere la povertà delle classi più povere con altri mezzi diversi dalla violenza e dalla repressione.

Le cifre di interpretazione possono essere numerose, ma non possiamo non riconoscere la difficoltà del popolo meridionale di fronte alle promesse di terre negate, leggi ingiuste e cecità di un governo che ha censurato con la forza un atto di ribellione sociale. Il Brigantaggio pesa ancora oggi nella memoria, è un’eredità scomoda tanto da essere considerato la radice delle associazioni mafiose, ma nessuno all’epoca seppe cogliere il grido di dolore e di giustizia della gente ridotta in miseria e priva di mezzi d’azione. Furono organizzazioni disordinate, nate dalla protesta, dalla rabbia e dall’incomprensione da parte delle nuove istituzioni. Se gli inglesi hanno saputo celebrare i loro Robin Hood, i francesi la loro Giovanna, emblemi della ribellione e della lotta contro il potere e la plutocrazia, tanto da farne soggetto di letteratura e cinematografia, noi non abbiamo dato sufficiente dignità ad una parte di popolo che gridava sostegno e comprensione. Colpevoli di miseria e banditismo meridionale atavico, ma allo stesso tempo vittime di una classe dirigente corrotta e di un macrosistema di potere che vede nel sud un serbatoio da spremere e che sembra avere un’incomprensibile cecità nell’estirpare l’arretratezza che ancora oggi ci contraddistingue.

I Briganti del Sud, tra criminali ed eroi, meriterebbero una luce con meno ombre all’interno del capitolo della storia, la quale spesse volte sembra dimenticare gli sforzi e i sacrifici degli ultimi per ergere altari a chi non li meriterebbe, ma che si macchia di altre colpe. Consapevoli degli errori del passato, non giustifichiamo la violenza, ma diamo giusta dignità a chi ebbe il coraggio di opporsi, spesso invano. Uomo si nasce, Brigante si muore, così inneggiavano al loro destino:

‘Omm’ s’ nasc’ brigant’ s’ mor’
Ma fin’ all’utm’ avimm’ a sparà
E se murim’ menat’ nu fior’
E ‘na bestemmia pe’ ‘sta libertà
E ‘na bestemmia pe’ ‘sta libertà

Testo della canzone “Brigante se more” (Mercanti di liquore), tratta dall’album La musica dei poveri.


[1] Orazio Ferrara, Il Brigantaggio Postunitario sul Massiccio del Saro, Ali Ribelli Editore, Gaeta, 2020.

di Annachiara Borsci

Annachiara Borsci è docente di Filosofia e Storia al Liceo "Moscati" di Grottaglie (TA). Dopo la Laurea in Filosofia, conseguita all'Unisalento di Lecce nel 2004, ha proseguito gli studi conseguendo nel 2009 il Dottorato di ricerca in discipline storico- filosofiche presso la stessa Università di Lecce sul pensiero di Hannah Arendt dal titolo "Il problema del male e la rifondazione della politica".

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *