Gio. Set 19th, 2024

Oriana Fallaci e l’Iran, da Mohammad Reza Pahlavi a Ruhollah Khomeini

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Gli avvenimenti degli ultimi anni in Iran hanno sollecitato nell’opinione pubblica italiana un profondo sconcerto. Dalla repressione delle proteste per la morte di Masha Amini sino all’attacco missilistico ai danni di Israele, l’osservazione delle dinamiche di potere iraniano, interne ed esterne, ha incupito e talvolta spaventato, magari perché il nostro popolo è incapace di comprenderle utilizzando i propri postulati. Due mondi diversi, alle volte privi della benché minima comunicazione umana.
Come spesso ha sottolineato uno dei più eminenti studiosi dell’Islam italiani, Massimo Campanini, comprendere la cultura e la politica islamica è per gli occidentali affare impossibile, se si continua a considerarle e giudicarle utilizzando categorie che non appartengono a quei popoli. Da questo punto di vista – colpevoli anche eventi drammatici degli ultimi quarant’anni – pare che la popolazione occidentale fatichi ancora a comprendere le categorie dei popoli del vicino Oriente, in particolar modo dell’Iran.

Eppure un viaggio alla scoperta del regime iraniano fu compiuto tempo fa, e per giunta da una delle giornaliste italiane più note e contestate nel mondo contemporaneo: Oriana Fallaci. Fu suo il merito di aver permesso ai lettori italiani di insinuarsi sommessamente al cospetto del potere pre e post-rivoluzionario della Persia contemporanea. Guidati dalla sua mano ostinata, pungente gli italiani provarono a decifrarne i caratteri e i postulati di uno Stato in transizione.
Oriana Fallaci lo fece in due momenti separati, sebbene non lontani tra loro: durante l’ottobre del 1973 si recò a Teheran per intervistare Mohammad Reza Pahlavi, ultimo scià dell’Iran; e, sei anni dopo, si fiondò nuovamente in quella Teheran turbolenta e rivoluzionaria per intervistare l’ayatollah Ruhollah Khomeini, artefice della rivoluzione iraniana e nuova Guida Suprema dell’Iran.

Ripercorrere quei sentieri, rispolverare quelle letture così piacevoli pare oggi fondamentale per riannodare il filo rosso che ha condotto all’Iran di oggi. E non è da considerarsi ozio letterario, questo. Perché non si può mica pensare di comprendere le dinamiche geopolitiche, gli smottamenti mediorientali e le maggiori o minori instabilità di regime ignorando l’elemento umano, esistenziale della politica. Grave errore sarebbe il nostro, se ci affidassimo solamente ai dati. La geopolitica deve essere – per mutuare un’espressione di Dario Fabbri – umana: deve, dunque, occuparsi anche della variabile esistenziale, degli stati d’animo e dei caratteri dei governanti, altrimenti rischia di ridursi a ciò che la Diotima di Musil definisce «un peu de bruit autour de notre âme» (un piccolo rumore attorno alle nostre anime).

MOHAMMAD REZA PAHLAVI – Teheran, ottobre 1973. Lo scià era un uomo molto strano. Un megalomane ebbro di misticismo, capace di convincersi di percorrere un sentiero di governo predestinato da Alì: durante l’intervista a Fallaci raccontò impudico un aneddoto della sua infanzia in cui lo spirito del legittimo successore del Profeta (almeno secondo gli sciiti) si era frapposto tra lui e un masso, salvandogli la vita. E quando la giornalista ebbe da obiettare sulla validità di un racconto di quel tipo, egli imperturbabile affermò che non rientrava nella grammatica di un’occidentale comprendere tali avvenimenti.
Viveva drappeggiato da lussi sproporzionati e la sua reggia irradiava uno sfarzo quasi imbarazzante. Nella prefazione all’intervista – contenuta nel saggio Intervista con la storia – è la stessa Fallaci ad affermare che «quasi tutto era d’oro lì dentro: il posacenere che non osavi sporcare, la scatola incrostata di smeraldi, i soprammobili coperti di rubini e zaffiri, gli spigoli del tavolino». E in quello sfarzo «irritante» si stagliava una personalità ambigua, forse minata dalla pazzia, che oscillava come un pendolo irrazionale tra il misticismo infantile degli illusi e la mirabile abilità tecnica degli avidi e pragmatici commercianti di petrolio. Nelle righe che precedono l’intervista, Oriana Fallaci ne abbozzava un chiaro ritratto:

Crede ai sogni premonitori, ad esempio, alle visioni, a un infantile misticismo, e poi discute sul petrolio come un esperto. (Lo è). Governa come un re assolutista, ad esempio, e poi si rivolge al popolo col tono di chi crede al popolo e lo ama: dirigendo una Rivoluzione Bianca che a quanto pare qualche sforzino lo fa per combattere l’analfabetismo e il sistema feudale. Ritiene che le donne vadano giudicate alla stregua di accessori graziosi, incapaci di pensare come un uomo e poi, in una società dove le donne portano ancora il velo, ordina addirittura alle ragazze di fare il servizio militare.

La natura misteriosa e indecifrabile di Mohammad Reza Pahlavi accompagnò tutta l’intervista e non trovò risoluzione nemmeno verso la fine. Rimase un enigma quell’uomo così megalomane e autoritario. Discorsero di molte cose, soprattutto del rapporto tra l’Iran e il resto del mondo. Considerava l’Iraq il suo peggior vicino, anche con una certa fortunata lungimiranza: sette anni dopo, nel settembre 1980, l’Iraq di Saddam Hussein avrebbe invaso l’Iran, dando inizio ad una guerra che sarebbe durata quasi un decennio e che avrebbe causato più di un milione di morti. Quanto all’Unione Sovietica, affermava invece che i solidi rapporti commerciali non avrebbero comportato un’altra invasione – oltre alle due guerre tra Russia e Persia (1804-1813 e 1826-1828) che condussero agli umilianti trattati del Golestan (1813) e del Turkmenchay (1828), l’Iran fu invasa dalla Russia anche durante le due guerre mondiali. Inoltre, la costituzione di un gasdotto e lo scambio di tecnici avrebbe consolidato il rapporto tra i due Stati. Vista con la consapevolezza sorniona che si addice solo ai posteri, pare che la prospettiva di consolidamento fosse più che fondata.

Sulla scia di questi presagi, lo scià affermò anche che il terzo conflitto bellico mondiale non sarebbe dovuto scoppiare per forza per il Mediterraneo – come alcuni degli analisti suggerivano all’epoca -, ma avrebbe potuto scoppiare anche per l’Iran. «Oh, molto più facilmente! Siamo noi, infatti, che controlliamo le risorse energetiche del mondo. Per raggiungere il resto del mondo, il petrolio non passa attraverso il Mediterraneo: passa attraverso il Golfo Persico e l’Oceano Indiano», affermava con lucidità altalenante Reza Pahlavi. Chiave d’interpretazione non inedita né priva di ragionevolezza, tanto più che iniziava a palpitare, prima ancora della Prima Guerra Mondiale, sulla bocca del diplomatico inglese (e poi Ministro degli Esteri) George Curzon nel 1893: «la Persia è come formata dalle caselle di una scacchiera su cui si gioca il destino del mondo».
Se da un lato narrava di nemici e rivali, lo scià concedeva anche uno spiraglio verbale per le domande sugli Stati Uniti. Sempre per via degli interessi economici e geostrategici, lo scià affermava che l’America non avrebbe mai abbandonato l’Iran. «Mi resta solo da aggiungere che gli Stati Uniti non possono chiudersi dentro i confini del loro paese, non possono tornare alla dottrina Monroe. Sono costretti a rispettare le loro responsabilità verso il mondo e quindi a curarsi di noi», sosteneva con sicumera. Da notare che una delle principali accuse mosse a Mohammad Reza Pahlavi fu proprio quella di esser colluso con gli americani: nel 1953, dopo una rocambolesca fuga in Iraq e in Italia, Reza Pahlavi riuscì a riacquisire i propri poteri e a rientrare in Iran solo grazie all’intervento statunitense.

La strategia geopolitica dello scià emerse con limpida vividezza durante l’intervista. Non importava chi fossero gli acquirenti del petrolio, era sufficiente che tutti i giacimenti fossero sfruttati al meglio; financo Israele poteva essere un legittimo acquirente, con buona pace del popolo palestinese (si badi bene, nello stesso mese dell’intervista scoppiò la Guerra del Kippur). E la motivazione era semplice a detta dello scià: «ho quei trentun milioni e mezzo di abitanti, e un’economia da sviluppare, un programma di riforme da concludere». Già in quegli anni fu chiaro che il petrolio era la radice degli interessi geopolitici del secondo Novecento, e che il posizionamento geostrategico dell’Iran non poteva prescindere dal controllo del suo commercio (si veda oggi l’utilizzo geopolitico dello stretto di Hormuz).

L’intervista si concluse a metà tra il vanaglorioso, il comico e il terrificante. Mohammad Reza Pahlavi ricordò a Oriana Fallaci che europei e iraniani non erano poi così diversi: «Se le nostre donne hanno il velo, anche voi ce l’avete. Il velo della Chiesa cattolica. Se i nostri uomini hanno più mogli, anche voi ce le avete. Le mogli chiamate amanti. E, se noi crediamo alle visioni, voi credete ai dogmi. Se voi vi credete superiori, noi non abbiamo complessi. Non dimentichiamo mai che tutto ciò che avete ve lo insegnammo noi tremila anni fa». Stavano per congedarsi, quando lo scià viene investito da un dubbio. La giornalista era davvero sulla lista nera dei servizi segreti iraniani? Dopo un po’ di indecisione affermò sornione: «non importa. Anche se è sulla lista nera delle mie autorità, io la metto sulla lista bianca del mio cuore».

L’AYATOLLAH RUHOLLAH KHOMEINI – Teheran, ottobre 1979. L’intervista a Khomeini non fu chiaramente un’intervista comune. E non tanto per il suo contenuto, ma per via delle peripezie che Oriana Fallaci dovette affrontare prima di arrivare a Qom, residenza dell’Ayatollah – non è un caso, infatti, che i primi due capitoli di Intervista con il potere siano interamente dedicati a questi eventi.
Arrivò a Teheran con la falsa promessa di avere un appuntamento con la Guida Suprema che aveva condotto a distanza la rivoluzione iraniana, ma scoprì solo dopo che l’appuntamento in realtà era una mera invenzione, e che il percorso per intervistarlo era eufemisticamente in salita. Conobbe la condizione d’oppressione esistenziale imposta alle donne iraniane, le inutili discriminazioni, il chador, il divieto di bere alcolici, i divieti d’ingresso e la strisciante misoginia che decolorava ogni declinazione della femminilità.

Dovette farsi strada a tentoni contattando ammiratori e traduttori dei suoi saggi – così conobbe Baghèr Salami, l’uomo che tradusse le sue domande a Khomeini – e sfruttare la competizione di due blasonati gerarchi laici come Bani Sadr e Gozadeq. Tuttavia, alla fine ottenne per davvero l’appuntamento. L’Ayatollah l’avrebbe attesa a Qom, a circa sei ore di strada dall’albergo in cui alloggiava. Condizioni necessarie per l’intervista: niente smalto rosso, niente cipria, niente profumi e indossare il chador. E proprio per il chador la faccenda si arricchì di una trama degna del più fantasioso dei romanzi. Baghèr Salami le procurò il chador, ma nel frattempo si era sparsa la voce della sua intervista a Khomeini, tanto da far piombare una nutrita troupe di giornalisti iraniani alle porte dell’albergo. Se fosse scesa già con il chador, avrebbe destato troppo clamore e l’intervista sarebbe saltata; dunque decisero che la Fallaci avrebbe indossato abiti occidentali e quelli islamici solo dopo, una volta superati gli ostacoli mediatici. Elusi i giornalisti e messisi in macchina alla volta di Qom, quel piano imperfetto si infranse sull’assurdo mucchio di divieti e proibizioni imposti dai rivoluzionari iraniani alle donne. Nessun albergo in cui la giornalista potesse cambiarsi e nessun posto pubblico in cui questo fosse concesso. Virarono quindi per la sede del municipio di Qom, occupando la stanza regia per il cambio d’abito. Lì un imam entrò all’improvviso e colse Oriana Fallaci con i pantaloni calati e seminuda, mentre il pudico Salami era girato verso il muro a salvaguardare la sua purezza di mussulmano. Scandalo e rischio di fustigazione librarono nell’aria come una sentenza di morte. Unica soluzione: matrimonio con scadenza tra Salami e Oriana; due coniugi potevano stare nella stessa camera, un uomo e una donna non coniugati (e per giunta con la donna seminuda) no. Salami e Oriana Fallaci firmarono per il matrimonio d’occasione, e la questione fu risolta. Alle 14.30 arrivarono alla corte dell’ayatollah Ruhollah Khomeini.

L’intervista ebbe un taglio decisamente diverso da quella condotta sei anni prima con Mohammad Reza Pahlavi. Il tono fu decisamente più polemico e gli argomenti trattati escludevano totalmente il rapporto con gli altri attori dello scenario geopolitico mondiale. Il fulcro della chiacchierata (poco amichevole) con la Guida Suprema dell’Iran fu senza dubbio la rivoluzione islamica, i diritti della popolazione iraniana, la fucilazione degli innocenti, i processi sommari e l’ondata di violenza indiscriminata provocata dalla destituzione dello scià.
Quando Oriana Fallaci, Bani Sadr e Baghèr Salami entrano nell’ufficio dell’Ayatollah, lo trovano seduto su un miserrimo tappetino con sguardo fisso e raccolto. L’impressione che provocò alla giornalista è spiegata con la notoria eloquenza nelle ultime righe prima dell’intervista:

Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca.

Le prime domande riguardarono la rivoluzione e la totale, ineluttabile idolatria che le masse provavano per l’Ayatollah. Il tono era sempre provocatorio e incline a generare una certa forma di agitazione nella Guida Suprema. Ma, con evidente sorpresa per la giornalista, lui non si scompose e ponderò le risposte con la calma e la flemma che ben si attaglia agli uomini dalla fede incrollabile. Le fucilazioni erano necessarie – assumeva l’Ayatollah – i prigionieri una prassi necessaria, i processi giusti nei limiti del necessario. Gli occidentali, che per troppi anni avevano deturpato ciò che era rimasto dell’Impero persiano, dovevano rimanere alla larga dagli interessi iraniani: i costumi e le regole occidentali non interessavano al popolo iraniano, anzi, erano considerati fonti di corruzione e malvagità. La rivoluzione era ancora giovane – continuava Khomeini – e le masse dovevano rimanere mobilitate, attente per eventuali sommosse e atti di resistenza. Il timore che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali potessero nuovamente ribaltare l’esito di un cambio di regime in Iran, proprio come avvenuto nel 1953 con Mossadeq, emergeva con chiarezza. Tale condizione di ostilità e diffidenza trovò l’acme un mese più tardi durante l’attacco all’ambasciata statunitense, che diede poi origine alla cosiddetta crisi degli ostaggi di Teheran.

Gli animi si infiammarono solamente quando arrivò la domanda sul chador. Oriana Fallaci, tentando in ogni modo di trattenere Khomeini, disse «su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador?». La Guida Suprema s’irrigidì di colpo e con occhi fiammanti di rabbia rispose che la questione dei costumi non la riguardava e che non riguardava gli occidentali, e che «se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla», perché il chador è «per le donne giovani e perbene». La risposta che la giornalista diede all’Ayatollah è storia, ma forse è meglio raccontarla con le sue parole:

Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno ad uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno.
«Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo.» E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero.
Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.

Quel giorno l’intervista si concluse così. E probabilmente, se la Fallaci non fosse stata così cocciuta e determinata, non ci sarebbe stato un seguito. Ma dopo aver letteralmente occupato l’ufficio di Khomeini e preteso di concludere l’intervista, perché altrimenti non si sarebbe risolta ad alzarsi, ebbe la concessione di un’altra mezz’ora per il giorno successivo. La parte complementare dell’intervista trattò del divieto del canto e del rapporto con l’Occidente, aspetto più che interessante per comprendere la percezione che l’Iran islamico aveva (e ha tutt’oggi) dei nostri popoli e del nostro modo di vivere. Anche qui sarà più che mai utile richiamare, da ultimo, la risposta di Khomeini, che a me pare davvero eloquente:

(…) quando il serpente ci ha morso, temiamo anche uno spago che da lontano assomigli a un serpente. E voi siete un serpente che ci ha morso troppo. In noi avete sempre visto un mercato e basta. Le cose buone, come il progresso materiale, ve le siete tenute per voi. Sì, abbiamo ricevuto molto male dall’Occidente, molte sofferenze, e ora abbiamo tutti i motivi per temervi e impedire ai nostri giovani di avvicinarsi a voi, di farsi ulteriormente influenzare dall’Occidente. A me non piace che i nostri giovani vengano a studiare in Occidente dove ce li corrompete con l’alcool, la musica che impedisce di pensare, la droga e le donne scoperte.

L’IRAN DI OGGI E L’OCCIDENTE – Dalla rilettura di queste due storiche interviste si possono certamente trarre alcune conclusioni. L’Iran ha subito le tribolazioni del Secolo breve hobsbawmiano in maniera più che considerevole: ha subito tre invasioni (Russia, Regno Unito e Iraq), ha prodotto tre rivoluzioni (rivoluzione costituzionale del 1906, la presa del potere della dinastia Pahlavi nel 1925 e la rivoluzione islamica del 1979) e ha vissuto negli ultimi decenni in condizione di embargo per via delle sanzioni statunitensi. Il suo popolo è da oltre sei secoli di religione prevalentemente sciita duodecimana, e ritrova nella figura dell’ayatollah Ruhollah Khomeini una recente figura storica di valore eroico, patriottico e teologico.

Immaginare che la totalità della popolazione iraniana possa condividere le legittime – almeno a nostro parere – proteste per i diritti delle donne seguite alla morte di Masha Amini è una forzatura politica, culturale e storica. Nessun Paese è omogeneo, nessun popolo in fin dei conti può vantare una narrazione ecumenica, tantomeno l’Iran con la sua storia, le sue etnie e la sua religione. Le pressioni occidentali perché il regime degli ayatollah possa capitolare e ad esso possa seguire una moderna (leggi occidentale) democrazia liberale assumono allora i tratti romanzeschi del desiderio infantile, quasi mistico (si veda, a titolo di mero esempio, la previsione di Robert Kaplan in The Loom of Time). Allo stesso modo, osservare ogni epifenomeno della cultura islamica sciita come meritevole dei più moderni anatemi rappresenta una chiusura ottusa e immotivata, quando il fine è davvero comprendere l’ethos di un popolo. Inconsciamente gli islamofobi nostrani forse temono che la profezia del folle Reza Pahlavi possa mostrarsi in tutta la sua evidenza: europei e iraniani non sono poi così diversi, soprattutto nel fondamentalismo.
La lotta per le libertà dei popoli – Oriana Fallaci aveva ragione – non si compiono con la violenza delle sedicenti rivoluzioni, ma con il lento e costante lavoro di emancipazione. Perché la vera rivoluzione «è un bruco che a poco a poco diventa farfalla per volare di fiore in fiore, nutrirsi di polline e non di sangue, allietare gli occhi di chi ammira geloso la sua libertà».

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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