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Antonio De Viti De Marco, l’antiprotezionismo meridionalista

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“Rassegna di meridionalismi” è una rubrica del mercoledì sera che ha il fine di riannodare la storia del meridionalismo, dalle origini sino ad oggi. In questo terzo articolo ci occupiamo di Antonio De Viti De Marco, meridionalista leccese e padre della lotta al protezionismo.

Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 20 settembre 1858, sulla spinta della teoria marginalista, insieme ad altri eminenti economisti dell’epoca (Pantaleoni, Mazzola, Barone, Sax, Wicksell e Lindahl), fornì un contributo determinante alle scienze delle finanze, da allora vera e propria disciplina autonoma dall’economia politica.
Oggetto delle riflessioni di De Viti De Marco era la tariffa doganale protezionista del 1887. Le ragioni sono da ritrovare nell’influsso decisamente negativo che essa aveva per l’economia meridionale; a beneficiarne maggiormente erano le industrie del Nord, indirizzate ad una produzione di macchinari e beni che imponevano in maniera quasi monopolistica su tutta la Penisola.

Con la fondazione della Lega antiprotezionista nel 1904, ebbe modo di entrare in contatto con Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini. La politica giolittiana era pero visceralmente protezionistica, e non lasciava spazi alla critica dei pur eminenti intellettuali liberisti.
Convinto che la questione meridionale non fosse meramente risolvibile nell’impiego di manodopera del Sud attraverso il compimento di lavori pubblici, De Viti De Marco concentrò la sua analisi sulle tariffe doganali, sulla libertà commerciale e sul diritto tributario. Non sfuggiva, infatti, all’economista pugliese che la ricchezza impiegata nelle regioni aveva una differente produttività a seconda delle condizioni socioeconomiche delle regioni stesse. Diventava così necessario un decentramento della spesa per opere pubbliche, nonché nell’arrogazione da parte dello Stato delle spese obbligatorie per i comuni.

LA RIFORMA TRIBUTARIA – Quanto alla legislazione tributaria, egli non professò una legislazione speciale per il Mezzogiorno ma un riforma delle sperequazioni. Insomma, auspicava l’abbassamento delle imposte sui terreni e un’esenzione di quelle sui fabbricati, nonché l’abolizione dei dazi sui consumi (che erano maggiormente penalizzanti per il Sud). Ma la sola riforma della legislazione tributaria a nulla poteva servire, se non accompagnata da un intervento attivo, pedagogico che preparasse la popolazione del Sud ad una produzione più moderna ed efficiente – evidente è qui l’influenza del pensiero pedagogico villariano.
In un saggio del 1903, La questione meridionale, comparso nella raccolta postuma Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), sottolineava che ciò:

(…) suppone una politica scolastica moderna, diretta ad elevare la capacità dell’uomo che nelle nostre società sempre più diventa il fattore primeggiante della produzione economica. Che lo Stato con le scuole prepari l’avvenire.

Condizione necessaria per un aumento, anche in termini valoriali, della produzione agricola era il ritrovamento di un adeguato bilanciamento nell’abbassamento dei costi delle derrate alimentari destinate al consumo interno. Proprio per queste ragioni l’oggetto delle critiche diventava la tariffa doganale del 1887, che aveva permesso all’industria italiana, localizzata nel Centro-Nord, di imporre un’egemonia di mercato su tutta la Penisola con conseguente aumento del prezzo dei prodotti.

De Viti De Marco non sottovalutava parimenti le critiche che avrebbero potuto essere mosse alla sua teorizzazione dell’abbattimento delle tariffe doganali. Perché era pur vero che l’effetto di tale progetto sarebbe stato l’abbassamento del costo dei manufatti industriali, con evidente danneggiamento della prosperità industriale del settentrione. Secondo l’economista pugliese, le industrie che avrebbero fatto la fortuna dell’Italia erano quelle ancora da svilupparsi nel mercato libero, come quella della seta.
Gli effetti della tariffa doganale per il meridione erano drastici: un sistema similcoloniale imponeva alla popolazione del Sud di acquistare le merci del Nord ad un prezzo stabilito dal monopolio. Ma la proposta di De Viti De Marco era lontana da una rivendicazione sudista; al contrario, era incardinata in un processo di crescita e di progresso patriottico nazionale. Da questa prospettiva, l’economista pugliese ha molto della dottrina fortunatiana: il Sud come questione italiana, nazionale e non solo meridionale.

GLI AGRICOLTORI DEL SUD E GLI INDUSTRIALI DEL NORD – In un saggio pubblicato sempre nel 1903, La politica commerciale e gli interessi del Mezzogiorno, De Viti De Marco espresse con fulgida vividezza la contrapposizione generata dalla tariffa doganale del 1887 tra agricoltori del Sud e industriali del Nord. La contrapposizione era, in una certa misura, immanente alle attività stesse: il settore agricolo mirava all’esportazione dei suoi prodotti e all’acquisto di manufatti, mentre il settore industriale aveva come obiettivo la vendita dei manufatti e dei prodotti sul territorio nazionale. Gli effetti della tariffa erano stati però nefasti per tutta l’economia nazionale, dal momento che avevano ridotto la rendita della terra molto più di quanto avevano aumentato i profitti dell’industria.
La politica doganale italiana era ancorata al principio di reciprocità, che la vincolava ad applicare tariffe analoghe o simili a quelle subite dagli altri Paesi. De Viti De Marco rimarcava che un autonomo abbassamento della tariffa avrebbe permesso da subito agli agricoltori meridionali di comprare a buon mercato i manufatti.

LA BATTAGLIA CORALE – Nel pensiero dell’economista pugliese, la battaglia politica contro la tariffa doganale e quella per la risoluzione della questione meridionale convergono sullo stesso argomento. L’abbattimento della tariffa doganale del 1887 si sarebbe così dovuta trasformare in una battaglia politica sempre più ampia, che avrebbe dovuto coinvolgere anche i consumatori, vessati dal protezionismo e incapaci di organizzarsi, trasformandosi in una battaglia democratica e patriottica.
L’inestinguibile fiducia nel libero scambio e nella prosperità di cui sarebbe stato foriero condusse De Viti De Marco a teorizzare un concetto che sarebbe stato poi ripreso da Salvemini e Gramsci, sebbene con un’accezione differente: l’alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud. Benché in questo caso si trattasse di un’alleanza strettamente funzionale all’abbattimento delle tariffe doganali, iniziò per la prima volta a baluginare sulla questione meridionale una nuova forma di contrapposizione: non più solo il Nord e Sud, ma anche i padroni (latifondisti o industriali) e i proletari (contadini e operai).

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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