Gio. Set 19th, 2024

La democrazia nei Comuni del Mezzogiorno e la legge dei potentati elettorali

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La certezza di esercitare liberamente i propri diritti democratici è sempre stata un po’ il feticcio di certo liberalismo retrò e un po’ l’illusione post-illuminista nascosta dentro ogni occidentale che si rispetti. Brandire come una bandiera gloriosa il vessillo democratico esistente, magari asserendo di difenderlo da ogni minaccia ipotetica e affermando financo che «la democrazia non si tocca»; queste attività, dicevo, sono certamente lo sport preferito di alcuni “fedeli” della democrazia nostrana.
Le pagine dei quotidiani sono piene sino ad esserne inzuppate di cronache di manifestazioni, cortei, sit-in e proteste d’ogni guisa, ma tutti accomunati dall’obiettivo di difendere la democrazia da questo o quel problema. Tali proteste, molto più vicine a rituali turneriani piuttosto che ad azioni politiche vere e proprie, emanano un certo effluvio sacerdotale, chierico. Sono riti religiosi di un nugolo di fedeli che tenta di esorcizzare lo spauracchio del male – in questo caso rappresentato dalla non-democrazia ipotetica.

La condizione della fedeltà incondizionata alla democrazia italiana credo sia quella che più si attagli allo stato di totale abbandono al concetto, nonché di cieca e ostinata cancellazione di ogni contraddizione esistente sotto il velo traslucido dell’amore incondizionato. Insomma, il fedele si dà ad una divinità tanto quanto al suo concetto, e non molto differentemente da come taluni nostri concittadini scelgono di darsi, senza preservare lo spirito critico del buon democratico, all’offerta democratica esistente.
Trasalirebbe ognuno di loro, se d’improvviso gli si dicesse che il sistema di gestione del potere all’interno del quale sono calati non assicura pienamente la realizzazione della democrazia immaginata dai padri costituenti.

Il rischio che questo articolo acquisisca, già dalle sue prime righe, il retrogusto peloso della polemica complottista è elevato, perciò cercherò di essere più chiaro e comprensibile. Ciò che intendiamo affermare è che l’Italia, benché rientrante nell’alveo delle democrazie occidentali e munita di tutti gli strumenti necessari per esserlo, vive l’amara, cruda contraddizione dell’assenza di democrazia sostanziale in alcuni momenti fondamentali della sua esistenza. Particolare riguardo assume, ai fini della proposta di riforma di cui ci occupiamo, il momento amministrativo.

La democrazia all’interno dei Comuni del Mezzogiorno è drammaticamente caduca. L’esercizio della funzione elettorale è la parodia simulacrale di un metodo di gestione del potere policentrico ed estremamente rigido. Intimamente ammorbato da colli di bottiglia che impediscono il naturale dispiegamento della partecipazione popolare, il sistema di potere amministrativo subisce l’usura e gli effetti di una lunga, lunghissima fase di stallo.
Il danno che certi fedeli fanno alla loro divinità non è null’altro che la condizione in cui essa si ritrova in questo preciso periodo storico. La democrazia amministrativa meridionale, in assenza di una critica opportuna alle proprie fallacie, ha prodotto un campo politico statico e atarassico, totalmente disabituato alla partecipazione. La de-storicizzazione del sé diventa la condizione esistenziale dominante, in cui il cittadino subisce e patisce la propria situazione umana e politica, smettendo di agire per una sua modifica.

DEGLI ESTREMI DELLA QUESTIONE – Vediamo di arrivare subito al cuore del problema, senza troppe circonlocuzioni verbali. La democrazia nei Comuni del Mezzogiorno è sancita sia dalla Costituzione che dagli statuti comunali, ma allo stesso tempo è paralizzata. Ciò che paralizza la democrazia è la satrapia politica: il potere informale che racchiude, come in un campo magnetico, nel potentato elettorale tutte le rivendicazioni popolari, trasformandole in richieste e declinandole in clientela.

La satrapia politica è un sistema di potere informale sovente normalizzato nei Comuni meridionali, che utilizza l’impotenza del cittadino per dare un prezzo alle sue legittime richieste democratiche. Il prezzo è il sostegno elettorale al titolare della satrapia e il rapporto in questione ha un nome ben preciso: clientela. Il clientelismo diviene così la grammatica del quotidiano sistema di gestione del potere amministrativo e si presenta come sentiero ordinario per soddisfare i bisogni popolari.

Se si ha qualche problema, di qualunque tipo esso sia, il riflesso condizionato del cittadino meridionale è di chiamare il suo punto di riferimento politico sul territorio per chiedere una soluzione.  Il che in un’ottica di democrazia rappresentativa non è certo un male. Tuttavia, la portata tremendamente dannosa di questo processo si disvela nel momento in cui esso si fa metodo, grammatica della quotidiana partecipazione politica del cittadino alla vita amministrativa del proprio paese. In questo modo, non si può più parlare di mera logica della rappresentanza, ma di vero e proprio filtraggio dei bisogni popolari. Si sviluppa il collo di bottiglia.

Il consolidamento del metodo di delega informale dà potere e legittimità al rappresentante politico, permettendogli di ergersi ad unica declinazione del desiderio popolare (l’ottativo del desiderio di Feuerbach). Il monopolio del transito è sempre seguito dal diritto di tassazione: è la genesi del clientelismo elettorale. Così il satrapo acquisisce il pieno controllo del feudo elettorale da lui occupato. Nasce la satrapia politica.

Gli effetti della satrapia politica sul governo del territorio sono purtroppo evidenti ai più; e l’atarassia politica del singolo cittadino è la spessa coperta sotto cui soffoca il senso di comunità. Gli esili, consunti residui dello spirito critico democratico fuoriescono poi come meteore impazzite nelle lamentele folcloristiche e nelle concitate polemiche da circolo ricreativo. La lamentela, il pianto dell’animale in gabbia, si fa latrato rassegnato del cittadino recluso nel potentato elettorale.

Egli, ostaggio di un potere occupante, è ridotto alla totale ignoranza delle questioni che lo riguardano. Tanto più che il metodo clientelare non richiede che il cittadino agisca per conoscere le soluzioni possibili ai suoi problemi; è sufficiente la lamentela e un buon satrapo pronto ad accoglierla.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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