Gio. Set 19th, 2024

Gli attacchi alle ambasciate nel conflitto in Medio Oriente

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L’attacco all’ambasciata iraniana di Damasco dell’1 aprile scorso ha capovolto violentemente la parvenza d’immobilità che il conflitto israelo-palestinese aveva guadagnato nel corso dei mesi. Il Medio Oriente sembrava fino ad allora una polveriera destinata a cristallizzare i sinuosi cumuli di rovine e di esplosivi generati dal parossismo ottobrino dell’anno scorso. Polveriera sempre pronta ad esplodere sì, ma mai a deflagrare: matassa inestricabile in grado di tracimare sempre in una certa instabilità ossimorica che congestiona il traffico marittimo e delegittima l’azione israeliana agli occhi dell’Occidente e del mondo intero.
L’attacco all’ambasciata iraniana, anche se non è stato esplicitamente rivendicato da Tel Aviv – così come avvenuto per altri attacchi israeliani in territorio siriano negli ultimi anni -, è pacificamente considerato di matrice israeliana. E costituisce un’ulteriore violazione delle norme internazionali vigenti, nello specifico della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963, di quella sulle relazioni diplomatiche del 1961 e del diritto internazionale consuetudinario. Tuttavia, sebbene le ambasciate siano luoghi protetti dalla sacra sovranità nazionale dello Stato d’invio, non è la prima volta che ciò avviene. Anzi, si potrebbe dire che – al netto dell’ordinaria autonomia e immunità di cui gode ogni giorno la maggior parte dei consolati nel mondo – spesso nella storia dei rapporti tra Israele, Iran e Usa le ambasciate sono state bersaglio di numerosi attacchi.

LA CRISI DEGLI OSTAGGI DI TEHERAN – Il primo caso in ordine di tempo è sicuramente rappresentato dalla notoria crisi degli ostaggi Teheran del 1979. Al principio della rivoluzione nazionale che condusse all’istaurazione del regime teocratico dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, alcune centinaia di studenti iraniani occuparono l’ambasciata americana con l’intento di ostacolare gli interessi americani in Iran. Erano anni di grande trambusto per i persiani e la presenza statunitense in Medio Oriente aveva da tempo acquisito ai loro occhi i tratti mefistofelici del male assoluto (incarnazione del «Grande Satana»).
L’evento scosse l’opinione pubblica occidentale, perché gli ostaggi furono pubblicamente esibiti e utilizzati come merce di scambio con l’obiettivo di ottenere l’estradizione dello scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi – l’estradizione non avvenne, e lo scià morì di tumore in Egitto prima della fine della crisi. Furono avviati numerosi tentativi di liberazione degli ostaggi, tra cui anche la famosa operazione Eagle Claw (artiglio dell’aquila), ma fallirono tutti miseramente. Solo nel gennaio del 1981, dopo una lunga e riservata trattativa intessuta grazie all’abile mediazione dell’Algeria e al prezzo dello scongelamento dei fondi iraniani detenuti nelle banche americane, avvenne la liberazione degli ostaggi.

LE STRAGI LIBANESI – Nell’inquieto clima di tensione generato dalla guerra civile libanese, dall’operazione israeliana Pace in Gallilea e dal massacro di Sabra e Chatila, i governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia decisero di compiere un secondo intervento di peacekeeping in terra libanese attraverso l’invio di una forza multinazionale. Nonostante il fine pacifico dell’operazione, l’arrivo dei militari occidentali destabilizzò ulteriormente lo scenario: tre attentati suicidi alle ambasciate americana e francese mieterono centinaia di vittime.
Il primo fu condotto il 18 aprile del 1983 e colpì l’ambasciata americana di Beirut. Un camion bomba esplose e causò la morte di 63 persone, tra cui alti esponenti della CIA. L’attacco kamikaze fu rivendicato rapidamente dalla Jihad islamica, gruppo terroristico libanese finanziato dall’Iran. Era l’inizio di un nuovo metodo di contrasto della presenza occidentale in Medio Oriente. Il secondo e il terzo attentato invece avvennero contemporaneamente: il 23 ottobre 1983 due autobomba colpirono le ambasciate statunitense e francese di Beirut, provocando 305 vittime. Questo evento è rimasto nell’immaginario collettivo occidentale – in specie americano e francese – come il vivido segno di una ferita morale ed esistenziale: l’esplosione provocò la morte di 241 marines e 58 parà transalpini.
La reazione degli Stati Uniti, tuttavia, non ebbe i connotati bellici aspettati, e si concretizzò in un incremento delle risorse economiche e militari impiegate in Libano. La Corte distrettuale di Washington, vent’anni dopo l’attentato del 18 aprile, condannò i mandanti iraniani al pagamento di un risarcimento economico ai familiari delle vittime.

I KAMIKAZE DI BEIRUT – Beirut è una città dannata su cui aleggia la dura, cruda essenza della questione mediorientale. Un altro attacco all’ambasciata, questa volta ai danni della sede iraniana, si è compiuto il 19 novembre 2013, provocando 23 morti, proprio durante la delicatissima fase di negoziato sul nucleare tra Teheran e l’Occidente e nel pieno della guerra civile siriana. Sebbene sia stato un caso quasi isolato – fatta eccezione per l’occupazione dell’ambasciata iraniana a Londra nel 1980 e per il recente attacco israeliano a Damasco -, l’attacco kamikaze ha portato ad emersione un imperativo della geopolitica: gli Stati non sono monoliti, ma presentano al loro interno geometrie variabili di poteri locali che possono esprimere il loro dissenso anche in maniera violenta e paramilitare contro il potere ufficiale o i suoi alleati. Ed è stato proprio questo il caso: l’attentato è stato rivendicato dalle brigate Abdullah Azzam, un gruppo qaedista libanese schieratosi nella vicina Siria contro il regime di Bashar al-Assad.

L’EVACUAZIONE DELL’AMBASCIATA DI BAGHDAD – Durante l’era Trump e in piena crisi siriano-irachena, e dopo un susseguirsi di raid aerei tra l’esercito statunitense e la milizia sciita filoiraniana Kata’ib Hezbollah, si è compiuto l’attacco di un nutrito gruppo di manifestanti iracheni ai danni dell’ambasciata americana di Baghdad. Era il 31 dicembre 2019, i manifestanti hanno superato i checkpoint e imposto ore di terrore al personale diplomatico, arrivando financo a bruciare una torretta di guardia. L’impossibilità di allontanarli e la forte tensione generata dai ripetuti bombardamenti hanno costretto il personale a procedere all’evacuazione dell’ambasciata.

LA POLVERIERA MEDIORIENTALE – La guerra in Medio Oriente si dimostra da sempre estesa e multidimensionale, arrivando persino a coinvolgere le ambasciate, neutrali e immuni da sempre. Il bombardamento damasceno dell’1 aprile scorso è quindi solo l’ultimo atto di una trama lunga e complessa. Tuttavia, non può essere inteso alla stregua di un atto irrazionale e non ponderato. L’attacco israeliano ha interrotto intenzionalmente una serie di interlocuzioni informali tra gli Stati Uniti e i principali avversari della regione (Iran, Hezbollah e Siria), funzionali ad un allentamento degli attriti e ad una cessazione del bombardamento di Gaza, in cui il ruolo di mediatore principale era svolto dagli Emirati Arabi Uniti.
Ora è saltato tutto, e la polveriera ha ricominciato ad infiammarsi sino al momento di massima tensione della notte del 13 aprile, in cui una pioggia di missili iraniani ha squarciato il cielo di Gerusalemme. Che sia stato un attacco fallito o simbolico – soprattutto per via del battage mediatico di rara, rarissima fattura con cui è stato annunciato – cambia poco; ciò che conta è il risultato: per la prima volta dall’inizio del conflitto in Medio Oriente l’Iran ha bombardato direttamente Israele. Inoltre, i lampi prodotti dalla rappresaglia di Teheran hanno permesso di scorgere in controluce una profonda divisione tra i governi arabi della regione: attori fondamentali come i sauditi, i giordani e gli emiratini hanno ancora una volta scelto di sostenere la presenza atlantica nella regione nonostante la strage di civili in corso a Gaza.
Una linea ruvida e scoscesa frammenta la polveriera mediorientale. Unico e reale fattore di stabilizzazione in questo caso sembra proprio essere l’America, con il presidente Biden che ha negato sostegno alla controrappresaglia israeliana e invitato ad un cessate il fuoco permanente a Gaza. Netanyahu non sembra deciso a lasciarsi limitare, e il rischio di un’escalation nella regione rimane considerevole.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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