Ci sono momenti nella storia in cui qualcosa si rompe, e quello che c’era prima all’improvviso non vale più. Una vera e propria crasi, una cesura brusca, rivoluzionaria, che interrompe la narrazione continua degli eventi. Succede sempre così, quando una transizione appena abbozzata si completa, accelerando in modo inatteso.
È accaduto esattamente questo con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. L’America improvvisamente ha cambiato idea. Ha deciso che l’ombrello protettivo sopra la testa dell’Europa non le conviene più, che sostenere l’Ucraina ad ogni costo non è più la priorità, e che è tempo di rispolverare una politica estera a metà fra la dottrina Wilson e la dottrina Monroe, reinterpretata in salsa trumpiana. Tradotto: ognuno si arrangi con i propri problemi.
Così gli Stati Uniti hanno voltato le spalle al vecchio continente, hanno iniziato a dialogare con le potenze autoritarie e si sono liberati, quasi con sollievo, di quello che ormai consideravano soltanto un fardello europeo.
L’EUROPA E LA SUA “STRATEGIA DI POTENZA” – Questa nuova situazione costringe l’Europa a fare i conti con una realtà molto semplice: è il momento di tornare a pensare come una potenza. Un compito arduo per un continente che in ottant’anni di pace non è mai riuscito davvero a trovare un’unità, salvo in alcuni momenti straordinari: gli accordi di Schengen, il Trattato di Maastricht, quello di Lisbona, o la solidarietà economica durante la crisi del Covid.
Adesso, davanti all’ennesima crisi, l’Europa deve reinventarsi. E deve farlo in fretta, costruendo una strategia nuova sull’energia, sull’economia e soprattutto sulla difesa. Da questa esigenza nasce il piano della Commissione Europea chiamato Rearm Europe, un progetto ambizioso, ma che già divide i partiti politici italiani e rischia di lacerare la stessa Unione.
Vediamo allora, più nello specifico, in cosa consiste questo piano, quali obiettivi si pone e perché sta suscitando critiche e perplessità.
COSA PREVEDE IL PIANO REARM EUROPE – Il Piano Rearm Europe è stato presentato ufficialmente dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen il 4 marzo 2025. In sostanza, si tratta di mettere sul tavolo circa 800 miliardi di euro per rinnovare e potenziare gli arsenali europei. Una cifra imponente, di quelle che discutono anche chi di numeri non si è mai occupato.
E dove li prende l’Europa tutti questi soldi? Il trucco — se così vogliamo chiamarlo — sta nella sospensione temporanea delle rigide regole del Patto di Stabilità e Crescita. Proprio come successo durante la pandemia del Covid, Bruxelles apre una parentesi nella disciplina fiscale europea e consente agli Stati membri di aumentare il proprio debito pubblico senza incorrere in sanzioni. Nello specifico, si parla di circa l’1,5% in più di spesa militare rispetto al PIL, e secondo la Commissione questa libertà di manovra potrebbe liberare risorse fino a 650 miliardi di euro.
Inoltre, la Commissione ha previsto anche un fondo di prestiti da 150 miliardi di euro, che saranno concessi a condizioni agevolate a quegli Stati che decideranno di acquistare insieme sistemi di difesa avanzati: missili, difese aeree integrate, droni e tutto ciò che serve per non restare indietro nella corsa globale agli armamenti. A questo si aggiunge un’altra mossa strategica: Bruxelles ha deciso di riorientare alcuni fondi europei, finora destinati allo sviluppo regionale e sociale, verso investimenti militari. Anche la Banca Europea degli Investimenti, che fino a ieri era cauta nel finanziare progetti militari, dovrà allentare alcune restrizioni per sostenere le aziende europee del settore difesa.
Non ultimo, la Commissione ha lanciato una vera e propria chiamata agli investitori privati: servono capitali freschi e anche le imprese devono fare la loro parte. Per farla breve, si tratta di mettere insieme debito pubblico, finanziamenti comunitari e investimenti privati per un progetto di riarmo che cambi radicalmente il volto e la strategia dell’Europa.
I PARTITI IN ITALIA ALLA PROVA DELLE ARMI – L’annuncio del piano, inutile negarlo, ha scatenato un autentico pandemonio politico. A reagire con maggior furore sono state soprattutto quelle frange che si dichiarano pacifiste, estranee per lo più all’arco parlamentare, e che vanno da un estremo all’altro del panorama politico. È emerso in maniera netta ciò che qualcuno ha definito con un’intuizione brillante il “rosso-brunismo”: cioè la convergenza insolita tra antagonisti di sinistra e antagonisti di destra, due schieramenti che normalmente non condividerebbero nemmeno un caffè, ma che improvvisamente si trovano d’accordo su pochi e specifici punti (quasi sempre sovranità, antieuropeismo, antiatlantismo e pacifismo).
Una declinazione quasi macchiettistica di questo fenomeno è andata in scena lo scorso 15 marzo a Piazza Barberini, dove Marco Rizzo e Roberto Vannacci (venuto meno all’ultimo) — due figure che rappresentano mondi opposti dell’antagonismo politico, entrambe ai margini dell’ordine costituito — avrebbero dovuto incontrarsi per contestare insieme, con inedita solidarietà, il piano europeo di riarmo.
Sarebbe comunque poca cosa se il clamore riguardasse solo queste bizzarre alleanze. Anche all’interno dell’arco parlamentare si registrano tensioni notevoli: da una parte, a destra, la Lega ha già dichiarato apertamente la propria contrarietà, criticando la facilità con cui si trovano risorse per le armi e non per la sanità o l’istruzione; dall’altra, a sinistra, una parte consistente del PD, Alleanza Verdi e Sinistra, e soprattutto il Movimento Cinque Stelle, giudicano questo piano negativamente perché considerato troppo focalizzato sui riarmi nazionali e poco sulla dimensione comunitaria.
Le divisioni sono nette, profonde, e coinvolgono ogni livello della politica italiana. Eppure, al di là della propaganda e delle posizioni ideologiche, è giusto precisare che il piano Rearm Europe presenta davvero delle criticità, che vanno analizzate con lucidità e senza paraocchi. Vediamole più nello specifico.
IL FERVORE NAZIONALISTICO E LE NAZIONI RIARMATE – Le critiche emergono chiaramente quando si guarda alla storia recente del continente. Le due guerre mondiali che hanno insanguinato l’Europa e devastato il mondo non sono esplose per caso: sono state innescate dalle tensioni tra stati-nazione europee, dal nazionalismo esasperato e dalle ambizioni imperiali frustrate. Dopo le barbarie naziste e la distruzione delle città e delle economie, l’Europa aveva compreso che per evitare un terzo conflitto mondiale occorreva proteggersi da se stessa, più che da minacce esterne. La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), poi la Comunità Economica Europea (CEE), nacquero proprio per impedire una quarta guerra franco-tedesca.
Oggi quell’obiettivo rischia seriamente di saltare. Con l’ombrello americano che si chiude, con la Russia che disprezza apertamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale dei vicini, e con l’Europa costretta a riorganizzare le proprie difese, il rischio di un ritorno prepotente del nazionalismo è vivo ed evidente. Lo ha ammesso candidamente anche il tedesco Friedrich Merz (CDU), affermando che “Germany is back”, la Germania è tornata. E proprio la Germania oggi appare come uno dei nodi più delicati: le ultime elezioni hanno portato il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd) al 20%, con un controllo politico ormai radicato nella Germania orientale. Una Germania riarmata, con un partito neonazista che pesa per un quinto del consenso, può davvero essere considerata sicura per l’Europa?
Tuttavia il problema non riguarda solo Berlino. Guardiamo alla Francia: Marine Le Pen è ormai a un passo dal potere, vicinissima alla maggioranza assoluta. Non è mai accaduto prima, e forse gli anticorpi democratici francesi reggeranno ancora. Ma se così non fosse? Una Le Pen al potere, fortemente nazionalista e notoriamente vicina a Vladimir Putin, quale Europa produrrebbe? E veniamo all’Italia, un Paese che sembra aver perso ormai ogni bussola identitaria. Una destra populista che si muove tra l’ambiguità di Salvini — abile nell’unire retoriche putiniane e trumpiane — e le difficoltà di Giorgia Meloni nel mantenere la linea sull’Ucraina, potrebbe davvero contribuire positivamente al progetto europeo?
Se allarghiamo lo sguardo al resto dell’Europa, vediamo una situazione altrettanto complessa: Viktor Orbán in Ungheria, la svolta a destra dell’Austria e i Paesi Bassi sempre più scettici. Il rischio concreto è che un piano di riarmo nazionale, più che proteggere l’Europa, finisca per riaccendere quei fuochi nazionalisti che l’Europa stessa con fatica aveva cercato di spegnere.
UN’EUROPA A DUE VELOCITA’ PER UNA DIFESA COMUNE – La situazione che abbiamo davanti è estremamente complessa, e trovare una risposta definitiva è davvero difficile. Lo ricordava bene Luca Ricolfi, in un articolo apparso sulla Stampa lo scorso 15 marzo, citando uno degli assunti più famosi della sociologia derivato dalla teoria dei giochi: nessuno ha mai tutte le giuste informazioni necessarie per prendere sempre la decisione opportuna. Quindi dobbiamo accettare il principio della fallibilità, muovendoci con prudenza.
Ciò che però è necessario ribadire è che una strategia di difesa europea è indispensabile. L’Europa non può più permettersi di rinviare le decisioni sulla sicurezza. Deve proteggersi dalle minacce esterne e deve anche tutelarsi da quelle interne, preservando quell’universo valoriale di libertà e tolleranza che con fatica ha costruito in questi ottant’anni di pace.
Proprio per questo, già negli anni ’50, con una lungimiranza che oggi ci sembra straordinaria, si tentò di creare la Comunità Europea di Difesa, la CED. Quel progetto naufragò presto. Oggi, con ventisette paesi incapaci di esprimere una politica estera comune, sarebbe ancora più difficile immaginare di costruire una difesa unica europea. Ma forse esiste una soluzione intermedia, e potrebbe essere quella giusta. È il principio, sperimentato da Maastricht in poi con discreto successo, dell’Europa a due velocità, o se preferite, dell’Europa alla carta. Si potrebbe creare una difesa comune europea soltanto con quegli stati che intendono farlo davvero, magari iniziando con Francia, Germania, Italia e Spagna, costruendo così progressivamente un esercito unico. Gli altri paesi rimarrebbero liberi di conservare i propri eserciti nazionali.
Attraverso questa impostazione, le soluzioni possibili sarebbero molteplici, senza per forza cadere negli estremismi che molti europeisti di vecchia data spesso sognano. Non è necessario, infatti, che gli Stati rinuncino immediatamente e integralmente ai loro eserciti nazionali (elemento utopico). Sarebbe invece sufficiente destinare inizialmente una percentuale limitata delle proprie forze militari alla costruzione di un esercito europeo comune (anche il 15-20%). Progressivamente, questo esercito condiviso crescerebbe, dotandosi di uomini, mezzi e strutture sempre più rilevanti. Un progetto realistico, pragmatico, che in un arco temporale ragionevole — per esempio dieci anni — potrebbe portare alla dissoluzione graduale degli eserciti nazionali, facendoli convergere finalmente in un’unica forza europea.
PACE NON VUOL DIRE DISARMO UNILATERALE – La conclusione di questo discorso, per forza di cose, deve essere etica e politica, prima ancora che geopolitica. Lo scenario che stiamo vivendo assomiglia molto più a quello della Prima Guerra Mondiale, frammentato e decentrato com’è, che non al secondo conflitto globale. E proprio come allora, anche oggi l’opinione pubblica italiana ed europea si divide in due fazioni ben distinte.
Da una parte ci sono gli interventisti, quelli che al riarmo credono senza se e senza ma, pronti alla guerra aperta contro la Russia oggi, e forse un domani anche contro Stati Uniti e Cina. Dall’altra ci sono i non interventisti, pacifisti convinti che da sempre pensano alla pace come a un disarmo unilaterale: rinuncia totale persino quando si tratta di difendersi.
Rispetto a un secolo fa oggi la questione è però diversa. Non stiamo discutendo se entrare in una guerra che non ci appartiene; stiamo ragionando su come costruire con coscienza, pragmatismo e responsabilità una nostra strategia geopolitica e una nostra politica di difesa. Oggi deve essere chiaro che essere “pacifisti” non vuol dire scegliere il disarmo unilaterale, soccombere di fronte alla violenza dell’aggressore o, tantomeno, rinunciare ai nostri principi in nome di un appeasement codardo e impotente. Essere pacifisti significa combattere per una pace giusta e libera, preservando gli ideali di sovranità, non-aggressione e libertà.
Questa massima deve essere il nostro imperativo categorico. Oggi. Domani. Per sempre.