A Lecce e dintorni, c’è un pezzo d’umanità che vive momenti di rinascita e d’integrazione. Fulcro di tutto ciò è l’ARCI Lecce, che offre un punto d’appoggio a chi arriva senza nulla, se non il peso di un passato difficile e un futuro decisamente incerto. Gli ospiti sono circa quattrocento, persi nei meccanismi tortuosi dell’accoglienza italiana. Anna Caputo, che di queste vite conosce gioie e disgrazie, ci ha aperto le porte del centro. Siamo andati a vedere da vicino cosa significa davvero integrarsi in Italia oggi.
Partiamo, come al solito, dall’attualità. Quali sono le difficoltà principali che incontrate nell’accogliere i migranti alla luce delle nuove normative?
Il tempo. È diventato una clessidra impietosa che rovescia la sabbia troppo in fretta. Sei mesi per imparare una lingua che non si conosce, trovare un lavoro in un paese in cui neanche gli italiani ne trovano, assicurarsi un tetto sulla testa e diventare autonomi. Non è accoglienza, è un gioco al massacro. Certo, esistono proroghe: qualche mese in più se si segue un corso di formazione, forse qualche concessione se hai un figlio piccolo. Ma il principio resta sbagliato. L’accoglienza dovrebbe essere un ponte verso la stabilità, non una botola che si apre sotto i piedi allo scadere del tempo.
Sistema molto diverso rispetto al passato.
Decisamente. C’era più elasticità, si usciva dai progetti quando si era pronti, non quando scadeva un termine burocratico. Oggi siamo al paradosso: chi riceve un diniego ha più tempo perché deve aspettare il tribunale, mentre chi ottiene il riconoscimento di protezione si ritrova in strada. La burocrazia ha creato un cortocircuito crudele: chi ha più certezze è anche il più penalizzato.
Quali sono le strategie fondamentali per favorire l’integrazione?
Due soli pilastri reggono la vita di un uomo in un paese straniero: il lavoro e la lingua. Senza questi, non esisti. Organizziamo corsi di italiano perché possano almeno difendersi nelle parole, e corsi di formazione per offrire loro una competenza spendibile. Ma la verità è che si combatte una battaglia su un piano inclinato.
In quali settori c’è maggiore richiesta di manodopera?
La ristorazione è sempre a corto di personale, così come il turismo e l’industria metallurgica, che cerca saldatori e tecnici specializzati. Trovare un impiego non è il problema: il problema è trovarne uno regolare.
I datori di lavoro sono più disponibili rispetto al passato?
Più disponibili, sì, ma per necessità, non per filantropia. Senza lavoratori stranieri, molti settori crollerebbero. Ma la strada è ancora lunga. Ho visto uomini faticare per dieci ore e venirne pagati tre, ho visto salari ridotti a elemosine coperte da minacce. Oggi le cose vanno meglio, ma non perché la coscienza civile sia cambiata, bensì perché la crisi demografica impone di avere braccia al lavoro.
Il caporalato è ancora un problema?
C’è ancora, ma è meno sfacciato. Ora il sopruso è più elegante, più silenzioso. Le aziende sanno che ci sono regole da rispettare, e i lavoratori iniziano a capire che diritti hanno. Ma molti di loro, nei loro paesi, non mai hanno avuto un lavoro regolare. A volte non ci si rende conto neanche della fortuna di essere pagati alla fine del mese.
La discriminazione è ancora un problema per chi arriva in Italia?
Sì, e si insinua nei meccanismi del quotidiano, nei dettagli. Il migrante incontra muri invisibili nella sanità, nella burocrazia, nelle istituzioni. E se nelle piccole comunità può ancora trovare un volto umano, nelle grandi città diventa un numero che non ha nome, né storia.
La questione abitativa è un altro grande ostacolo.
È la bestia nera dell’integrazione. Gli affitti brevi hanno reso impossibile trovare una casa. E senza una residenza, non sei al sicuro. È un paradosso crudele: ti diciamo di integrarti, ma ti togliamo gli strumenti per farlo.
Oltre al lavoro, quali strumenti utilizzate per sostenere i vostri ospiti?
L’integrazione non è solo burocrazia e stipendi. È anche ricostruire un’identità dopo il trauma. Organizziamo laboratori di teatro, musica, pittura, giocoleria. Per chi ha visto l’inferno della Libia, queste attività non sono solo svago, sono un antidoto al buio. Sono atti di resistenza emotiva.
L’ARCI Lecce gestisce progetti molto corposi, tanto da essere un punto di riferimento in tutta la provincia. Quante persone accogliete e come gestite l’integrazione?
Abbiamo undici progetti e ospitiamo fino a 400 persone. Li facciamo vivere in piccoli appartamenti, non in grandi strutture, per abituarli gradualmente a una vita indipendente. Insegnare loro la raccolta differenziata, le pulizie, la gestione di una casa non è un dettaglio: è il primo passo per diventare parte di una società.
La convivenza tra culture diverse genera tensione?
Sì. E non sono solo gli italiani ad avere pregiudizi: ci sono cristiani che diffidano dei musulmani, africani che non sopportano i mediorientali. Nessuno arriva senza un patrimonio culturale, e noi dobbiamo lavorare sulla mediazione per insegnare loro che, volenti o nolenti, dovranno condividere lo stesso spazio.
Altro grande capitolo è rappresentato dai corridoi umanitari. Sono davvero efficaci?
Lavoriamo con Sant’Egidio e ARCI per portare in Italia le persone più vulnerabili. Ma anche qui la logica è spietata: chi ha più risorse parte prima, lasciando indietro i più deboli. È una selezione naturale camuffata da burocrazia.
Le politiche migratorie degli ultimi anni hanno inciso sull’accoglienza?
Hanno inciso come una lama. Il decreto sicurezza di Conte è stato devastante, e con Meloni molte restrizioni sono tornate. Il sistema oscilla tra aperture e chiusure, ma a pagarne il prezzo sono sempre gli stessi.
Il tema dell’accoglienza è spesso condizionato dalle politiche nazionali e dalle decisioni sui cosiddetti “paesi sicuri”. Questo sistema funziona?
No, ed è qui il problema. Ogni otto mesi il legislatore aggiorna la lista dei paesi sicuri con criteri arbitrari. Prendiamo la Tunisia: viene considerata democratica, ma per un oppositore politico, una donna vittima di violenza o una persona LGBTQIA+ potrebbe essere tutt’altro che sicura. Il paradosso è che tratteniamo persone in Italia per mesi, a volte anni, poi le rimandiamo indietro. Nel frattempo hanno imparato la nostra lingua, i loro figli hanno frequentato le nostre scuole, hanno costruito legami. E poi? Li strappiamo via, come numeri su una lista, senza considerare i traumi che questo comporta.
L’accoglienza di prima e seconda fase dovrebbe essere meglio collegata?
Assolutamente. Oggi la prima accoglienza non filtra, non decide con criterio chi può restare e chi no. Peggio ancora, chi prende queste decisioni spesso non ha le competenze per valutare i singoli casi. Il Burkina Faso può essere sicuro per il 99% della popolazione, ma se quel singolo individuo è un attivista sindacale perseguitato, per lui non lo è. Questo dovrebbe essere chiaro subito, non mesi dopo, quando la sua vita è stata sradicata due volte.
Le commissioni che valutano le richieste d’asilo hanno gli strumenti adeguati?
Dipende. Ci sono persone competenti, ma anche chi non ha alcuna formazione specifica. E questo è inaccettabile. Non si può decidere della vita di un individuo senza conoscere il suo paese d’origine. Nei tribunali esiste un’organizzazione europea che fornisce informazioni dettagliate sui paesi. Perché nelle commissioni per i rifugiati no? Spesso nemmeno l’UNHCR è presente. È così che si commettono errori enormi.
C’è un aspetto particolarmente ingiusto nelle richieste d’asilo?
Uno mi indigna più di tutti: chiedere a una donna appena arrivata di raccontare subito le violenze subite. Come si può pretendere che una donna, dopo uno stupro in Libia, parli davanti a uno sconosciuto appena messo piede in Italia? Rivivere un trauma non lo cancella, anzi. Alcuni dolori si imparano a gestire, non a superare. E senza un supporto psicologico adeguato, è solo un’altra forma di violenza.
La situazione in Libia è drammatica. Cosa pensi dei finanziamenti italiani a quel paese?
È uno scandalo. Le nostre tasse finiscono nelle mani di bande armate che gestiscono lager e trafficano esseri umani. Sappiamo benissimo che i lager libici vengono finanziati con fondi europei. Abbiamo pagato motovedette che poi sparano sui migranti in fuga. Minniti ha aperto la strada, Salvini l’ha radicalizzata, e ora Meloni tenta di spostare il confine ancora più in là, in Albania. E non finisce qui: prima o poi si cercherà di chiudere ogni frontiera prima ancora che le persone partano.
Ti faccio una domanda un po’ provocatoria. Non si può davvero aiutare i migranti nei loro paesi?
Ah già, il solito «aiutiamoli a casa loro»… Peccato che il Piano Mattei per l’Africa sia solo una nuova forma di colonialismo. Serve a garantire all’Europa nuove risorse energetiche, non certo a costruire un’alternativa per quei paesi. Le democrazie non si esportano. L’unico paese africano che può definirsi democratico è il Kenya, e anche lì la pressione di milioni di rifugiati somali lo tiene costantemente in bilico. Pensare di risolvere il problema con investimenti mirati dall’alto è una fantasia.
Se potessimo chiedere ai migranti cosa migliorare l’accoglienza, cosa direbbero?
Domanda giusta. Peccato che nessuno glielo chieda. Noi possiamo avere le nostre idee, ma non è detto che siano quelle giuste. Bisognerebbe ascoltare chi vive questa realtà sulla propria pelle. Nei nostri centri potremmo organizzare incontri con i migranti per raccogliere le loro opinioni. Più spazio per il dialogo, meno per le teorie astratte. Alla fine, sono loro i veri protagonisti di questo percorso.
Concludiamo di solito le nostre chiacchierate con un suggerimento per l’azione. Dunque, se dovessimo intervenire da domani, da dove dovremmo cominciare?
Prima di tutto, smettere di trattarla come un’emergenza. L’immigrazione è un fenomeno strutturale, non un’onda improvvisa. Serve programmazione seria, non decreti improvvisati. Poi bisogna creare veri percorsi di integrazione.
E poi dal tempo. Non ne diamo abbastanza. Chiediamo alle persone di ricostruire una vita in pochi mesi e quando non ci riescono, le lasciamo scivolare nell’emarginazione o nella criminalità. Eppure, la storia ci insegna che l’integrazione funziona solo se ha tempo per funzionare. Servono strumenti adeguati e un orizzonte meno angusto. Se li avessimo, vedremmo risultati molto diversi.
Interessante intervista.