Ven. Mar 14th, 2025
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“La violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice.”

È così che Benedetto Croce descrive le violenze della sua epoca, ma che, come concorderemo, risuonano ancora nella nostra realtà. La violenza di genere è un dibattito sempre aperto, testimone di orrori e misfatti ancora perpetuati nel presente. L’arte ha da sempre risposto prontamente a tematiche di questa categoria. Più in generale, Picasso denuncia nel 1945 gli orrori della guerra con Guernica, rispondendo alla domanda di un ufficiale nazista «Ma questo l’ha fatto lei?» con «No, l’avete fatto voi»; il quadro dell’artista, ma il soggetto della guerra, e in particolare del Nazismo.

Spesso, quando si parla di arte, quando usiamo immagini nel corso di una riflessione, la nostra prima reazione è di leggerezza, come se contemplare immagini fosse facile, piacevole e poco serio. Tradurre in parole le domande e le lotte degli artisti con la violenza è la chiave di volta: come la rappresentano, perché l’hanno strutturata in quel modo, come si trasforma un concetto, in che cosa si sublima un’alterità o un simbolo, e se davvero possiamo parlare di una «trasformazione» in senso stretto. Questi quesiti non sono espliciti, sebbene si possano ricavare dall’osservazione delle opere. Focalizzando la nostra attenzione sul tema di partenza, la violenza di genere, diverse sono le esperienze di artisti e artiste nel dibattito concitato.

L’installazione del 2011 Suspended Together («Sospese insieme») dell’artista saudita Manal Al-Dowayan consiste in circa 200 colombe bianche di porcellana. Alcune sono sul terreno, altre sospese in aria. L’opera dà un’impressione di libertà, leggerezza e movimento, ma mette in luce sottilmente una situazione violenta di oppressione e disuguaglianza. Quando ci avviciniamo, notiamo che ogni colomba porta impresso nelle ali un documento ufficiale. Si tratta del permesso che ogni donna saudita deve avere per viaggiare, sottoscritto da un tutor uomo.

Nell’opera sono stati raccolti i permessi di donne tra i sei mesi e i sessant’anni, tra le quali figurano alcune note donne scienziate, ingegneri, artiste, educatrici, giornaliste e dirigenti che hanno lasciato la loro impronta nella società saudita, ma che dipendono, tutte, nessuna esclusa, e pendono dal capriccio di un uomo. Queste donne sono come marionette, sospese, bloccate e non libere.

Una delle pratiche più sfruttate soprattutto dalle artiste femminili per raccontare un mondo di oppressione maschilista è quello della performance. Per performance si intende uno spettacolo oppure un intervento artistico in cui l’autore elabora una tematica di riflessione che può essere più o mena esplicita. Vi propongo due esempi:

In una performance del 1964, l’artista Yoko Ono durante uno spettacolo si siede sul palco e posiziona delle forbici davanti a sé, esortando il pubblico ad avvicinarsi e tagliare un pezzo di tessuto dai suoi vestiti. All’inizio nessuno si avvicina. Poi qualcuno si fa coraggio ed esegue quanto richiesto. E poi ancora un altro, e un altro, e un altro, sino a lasciare l’artista spoglia di tutto.

“Quanti di noi, seguendo il branco, spogliamo di dignità una donna?” è la riflessione che lascia Yoko al pubblico.

Nel 1963, l’artista Yayoi Kusama, nella performance denominata Accomunation N. 1, si siede su una poltrona piena di tessuti imbottiti. Ci dice che si sta per sedere su dei falli, forme a cui i tessuti rimandano. Era un modo con cui Kusama esorcizzava la sua paura e il suo rifiuto del sesso, ma anche per parlare della pesante, dilagante e onnipresente presenza degli uomini, ovunque. Il sistema dell’arte occidentale, la politica, la società in cui lei vive erano totalmente maschiliste, fallocentriche e di dominanza bianca. Quest’opera parla della sudditanza psicologica delle donne in un sistema che non le valorizza.

Infine, come ultimo esempio, propongo una performance Rhythm 0 della famosa Marina Abramović, del 1974. L’artista in quell’occasione, riprendendo anche l’azione performativa di Yoko, si metteva a disposizione completa del pubblico. La performance si è svolta nello Studio Morra di Napoli per un totale di sei ore. Nella galleria erano stati posti 72 suppellettili di vario genere, distinti in oggetti del piacere e del dolore: una rosa, del cotone, dell’acqua, e poi forchette, coltelli, fruste. Il pubblico diveniva artefice e regista dell’occasione, sfruttando qualsiasi oggetto di sua scelta sull’artista. Alla fine, Marina si trovò malmenata, graffiata, tagliata, spogliata, persino con una pistola carica in mano. Anche qui la donna che non reagisce, non affronta il nemico, che non ha la forza di parlare diventa la vittima di un’atmosfera terrificante.

Il discorso ovviamente si allarga al genere umano: Fino a che punto può spingersi il malvagio che c’è in noi?

Concludo questo articolo con una citazione di Marilyn Monroe:

Ogni donna merita un uomo che le rovini il rossetto, non il mascara”.

In copertina: Edvard Munch, Madonna, 1895-1902, litografia in quattro colori, 605 x 447 mm (immagine) 650 x 490 mm (piastra) 835 x 621 mm (foglio), Hamburger Kunsthalle, Kupferstichkabinett, Amburgo, Germania.

di Mattia Carlucci

Sono uno studente di Storia dell'Arte presso l'Università di Lecce, con laurea in DAMS. Ho la grande passione per le civiltà antiche, in particolare per l'Antica Grecia. Scrivo articoli per Metasud su storie mitologiche, aneddoti storici, opere d'arte ed interviste a giovani ragazzi del Sud. Gestisco anche un canale Youtube chiamato "La Landa del Sole" dove parlo di giochi di ruolo e mondi fantasy. Credo fermamente nel progetto editoriale.

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