Questo articolo è stato scritto da Maria Lucia Tocci e Domenico Birardi.
La Corte Costituzionale ha deliberato oggi sull’inammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata. Contestualmente, ha invece dichiarato ammissibili i quattro referendum proposti dalla CGIL e quello sulla cittadinanza. Si voterà dunque per cinque quesiti referendari, e non sei come inizialmente previsto.
Con questa decisione, l’autonomia differenziata esce definitivamente dalla portata del giudizio popolare. Non sarà più possibile abrogarla tramite referendum: l’unica strada percorribile resta quella parlamentare.
Ma cosa è accaduto realmente? E perché la Corte Costituzionale, ancora una volta, si è pronunciata con una sentenza che appare più politica che giuridica?
LE MOTIVAZIONI – La Corte Costituzionale ha motivato l’inammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata facendo leva su tre punti principali: la mancata chiarezza del quesito; l’eccessiva genericità del testo; e, infine, la sua connessione diretta con l’articolo 116 della Costituzione, norma costituzionale non sottoponibile a referendum.
Presentata così, la decisione potrebbe persino apparire ragionevole. Una spiegazione che, a prima vista, sembra reggere sul piano tecnico. Ma c’è un problema di fondo: la fragilità giuridica e l’irregolarità delle motivazioni addotte dalla Corte. Un’irregolarità che solleva interrogativi tanto sul merito quanto sulle implicazioni politiche della sentenza.
COSA DICE LA COSTITUZIONE – L’articolo 75 della Costituzione è l’unico riferimento normativo che regola l’ammissibilità dei referendum abrogativi. Esso stabilisce in modo tassativo i casi in cui un referendum non può essere proposto. Nello specifico, esclude i quesiti che riguardano leggi tributarie o di bilancio, trattati internazionali, modifiche territoriali o materie relative ad amnistia e indulto. Ora, il quesito abrogativo dell’autonomia differenziata non rientra in nessuna di queste quattro categorie. È un fatto chiaro, evidente, incontrovertibile. Di conseguenza, il compito dei giudici avrebbe dovuto riguardare i potenziali pericoli per la sistematicità costituzionale e i beni fondamentali dell’ordinamento.
IL RUOLO DELLA CORTE COSTITUZIONALE – Il ruolo della Corte Costituzionale nella determinazione dell’ammissibilità di un referendum appare quindi, almeno in teoria, chiaro e lineare. Ma la realtà è un’altra. Dal 1956 in poi – con l’istituzione della Corte Costituzionale e l’arrivo dei primi quesiti referendari – la situazione è cambiata radicalmente. La Corte ha iniziato a individuare una serie di criteri aggiuntivi per stabilire l’ammissibilità dei quesiti (es. chiarezza, univocità, omogeneità, ecc.). Criteri che non derivavano dal dettato costituzionale, ma venivano creati dai giudici stessi. Questi indici sono diventati condizioni necessarie per proporre un referendum, e rimangono materia esclusivamente riservata ai giudici e sottratta alla gestione democratica. Una discrezionalità che nel tempo ha assunto connotati sempre più politici.
GLI ALTRI CASI NEGLI ULTIMI DIECI ANNI – In numerose occasioni la Corte Costituzionale si è concessa infatti la libertà di andare oltre il dettato dell’articolo 75 della Costituzione, decidendo sull’ammissibilità dei quesiti referendari con motivazioni che erano marcatamente politiche.
Prendiamo il caso del referendum sulla legge elettorale del 2012, il cosiddetto Porcellum di Calderoli (sempre lui!). La Corte dichiarò inammissibile il quesito, sostenendo che la mancanza di chiarezza e univocità avrebbe potuto generare incertezze nell’assetto normativo risultante, influenzando la rappresentanza politica. Una motivazione che non trovava alcun fondamento concreto, se non nella volontà politica di riservare – arbitrariamente – questa materia così complessa al legislatore.
Nel 2022, un altro caso significativo. Si raccolsero firme per un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, e anche qui la Corte intervenne dichiarando l’inammissibilità. Motivò la decisione con l’uso della tecnica del “ritaglio” da parte dei proponenti, che avrebbe prodotto una norma del tutto nuova, mirata contro i magistrati e potenzialmente lesiva della loro indipendenza. Qui, la scelta politica fu evidente: nessuna abrogazione è esente dal generare un qualche effetto creativo nell’ordinamento. Ancora, sempre nel 2022, toccò al referendum sull’omicidio del consenziente (la cosiddetta eutanasia legale) e al referendum sulla cannabis legale. Entrambi furono dichiarati inammissibili. La Corte motivò la prima decisione sostenendo che il quesito fosse contrario ai principi fondamentali dell’ordinamento. Per il secondo, invece, invocò il contrasto con i trattati internazionali.
In tutti questi casi, la Corte, che dovrebbe limitarsi a un ruolo tecnico e giuridico, ha finito per esercitare un potere discrezionale che ha inciso profondamente sulla democrazia referendaria.
IL POPOLO NON DEVE VOTARE – Un potere politico, dunque, che non si limita a garantire la sistematicità costituzionale delle norme risultanti, ma si spinge ben oltre. Un potere che, con decisioni nette e spesso unilaterali, colpisce la volontà dei cittadini, la soffoca.
Così si preferisce chiudere la porta al popolo, vietandogli di esprimersi attraverso il voto. Ancora una volta, in linea con una tradizione consolidata, la Corte ha negato ai cittadini il diritto di votare. Ha deciso che il popolo non deve pronunciarsi. L’autonomia differenziata è irrimediabilmente blindata.