Ernesto Screpanti, classe 1948, è un economista di rilievo internazionale. Laureato in sociologia a Trento e in economia a Cambridge, ha insegnato in atenei come Trento, Firenze, Trieste, Parma, New York, Rio de Janeiro e Siena. Conosciuto per la sua rilettura del marxismo, ha aggiornato questa teoria alla luce del capitalismo contemporaneo. Oggi ci aiuta a comprendere meglio il fenomeno migratorio e il comportamento del governo italiano a riguardo.
Professore, prima di iniziare un discorso sui problemi odierni dell’immigrazione, potrebbe farci un quadro riassuntivo sulle cause del fenomeno e sulle prospettive di evoluzione futura?
Le cause sono fondamentalmente quattro. Innanzitutto, le guerre e le persecuzioni, che spingono molti profughi a emigrare in cerca di asilo politico. In secondo luogo, l’accumulazione primitiva. Oggi molti paesi in via di sviluppo si stanno industrializzando, soprattutto in forza degli investimenti diretti esteri delle multinazionali, le quali si appropriano di risorse agricole e minerarie e impiantano fabbriche moderne. Così espellono manodopera dai settori produttivi tradizionali senza riassorbirla tutta nei settori moderni. I disoccupati e gli inoccupati si ritrovano a vivere in condizione di povertà estrema e sono costretti a emigrare per sopravvivere. In terzo luogo, i disastri ambientali. Questa causa viene spesso sottovalutata. Invece sta diventando sempre più importante a causa del cambiamento climatico. Ad esempio, nel 2022 il numero di migranti da disastro naturale è aumentato del 45%, ed è stato superiore a quello delle persone in fuga da conflitti. In quarto luogo e soprattutto, la transizione demografica. Per millenni il tasso di crescita della popolazione mondiale è stato basso perché erano alti sia il tasso di natalità sia il tasso di mortalità. Questo è il cosiddetto “regime demografico tradizionale”. A un certo punto nella storia comincia a diminuire il tasso di mortalità (per i progressi della medicina, delle condizioni igieniche eccetera), ma il tasso di natalità resta alto. Quindi il tasso di crescita naturale della popolazione aumenta molto e s’innesca la “bomba demografica”.
Successivamente però si riduce anche il tasso di natalità (per i progressi culturali, l’emancipazione delle donne, l’urbanizzazione eccetera). Di conseguenza il tasso di crescita della popolazione torna a essere basso e si entra nel cosiddetto “regime demografico moderno”. La transizione di un paese può durare qualche decina d’anni. In Europa è stata attraversata da diversi paesi in diversi periodi. È iniziata nella seconda metà del Settecento (in Inghilterra) e terminata (in alcuni paesi mediterranei e orientali) all’inizio del Novecento. La sovrappopolazione generata dalla transizione ha trovato sfogo nella massiccia emigrazione europea verso le Americhe.
Oggi la transizione è cominciata in tutto il Sud del mondo ma non è stata ancora completata in molti paesi, specialmente dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia meridionale. A causa di questo processo la sovrappopolazione e l’emigrazione colpiscono anche quei paesi meno sviluppati in cui l’industrializzazione non è ancora arrivata. Non c’è dubbio che prima o poi la transizione sarà completata dappertutto (tra venti o trenta anni, secondo alcuni demografi). A quel punto tutto il mondo si troverà in regime demografico moderno e la “bomba demografica” sarà stata disinnescata.
C’è anche un altro fenomeno interessante, quello che è stato chiamato “seconda transizione demografica”, consistente nell’ulteriore diminuzione del tasso di natalità fino al punto di determinare una crescita nulla o negativa della popolazione. Si sta verificando nei paesi cosiddetti “vecchi” del Nord del mondo, Italia e Giappone in testa. Si prevede che verso la metà di questo secolo gran parte dei paesi del Nord potrebbero avere una crescita demografica zero. Questo è un problema, perché vuol dire che una percentuale decrescente di lavoratori giovani dovrà sostentare una percentuale di vecchi che aumenta, anche in considerazione dell’allungamento della speranza di vita.
Tuttavia pochi hanno riflettuto sul fatto che i due problemi di transizione possono essere l’uno la soluzione dell’altro: accogliendo gli immigrati dal Sud del mondo, il Nord riesce ad accrescere la propria forza lavoro e la percentuale di popolazione giovane.
Quindi sembra esserci una forte giustificazione economica per l’accoglienza dei migranti.
Questa è una giustificazione economica di lungo periodo. Ce ne sono anche altre di breve periodo. Ma la giustificazione principale è di carattere etico, non economico. Nella cultura occidentale ci sono almeno tre filosofie morali che obbligano all’accoglienza. Per i cristiani c’è la carità cristiana; per i socialisti, l’internazionalismo e la solidarietà proletaria; per i liberali, la libertà di movimento delle persone e il diritto all’emigrazione.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani stabilisce all’articolo 13 che “ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio”. La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea sancisce all’articolo 18 “il diritto di asilo garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra”. Dunque i paesi che hanno accettato formalmente le due Dichiarazioni non dovrebbero poter impedire l’esercizio di questo diritto. In realtà né l’Italia né l’Unione Europea hanno mai messo in atto politiche dell’emigrazione rispettose delle due Dichiarazioni.
E quali sono le giustificazioni economiche di breve periodo?
Ce ne sono almeno due. Una è quella dei padroni. I migranti fanno aumentare l’offerta di lavoro e rendono il mercato del lavoro un mercato dominato dalla domanda. Se l’economia non cresce abbastanza, l’offerta di lavoro supera la domanda e ciò pone un freno alla crescita salariale. Questo fatto fu già messo in evidenza da Paolo Cinanni – operaio, partigiano e dirigente del PCI – nell’ormai classico “Emigrazione e imperialismo”, in cui sviluppava una teoria marxista dei processi migratori.
Dunque è vero che c’è una sorta di competizione tra i lavoratori del Nord e quelli del Sud del mondo, una competizione favorita dalla globalizzazione. In che modo questa competizione sta ridefinendo le dinamiche del lavoro?
La globalizzazione, o meglio, l’imperialismo globale delle multinazionali, mette i lavoratori del Sud in competizione con quelli del Nord in due modi. Innanzitutto, come ho già accennato, gli investimenti diretti esteri destrutturano le economie tradizionali, sostengono l’accumulazione primitiva e generano masse di individui poveri e senza lavoro. Ciò consente di tenere bassi i salari nei paesi del Sud, così da instaurarvi un regime di super-sfruttamento. Le merci prodotte a basso costo del lavoro vengono poi esportate nel Nord, dove mettono in difficoltà molte imprese, che quindi chiudono per fallimento o per delocalizzazione, cioè o perché non fanno più profitti o perché ne vogliono fare di spropositati. In questo modo i lavoratori del Sud sono messi in competizione con quelli del Nord senza dover emigrare. È il capitale che emigra in cerca del lavoro a più basso costo. Ma purtroppo devono emigrare anche le persone. Come ho già detto, le masse di poveri senza lavoro del Sud che emigrano nel Nord vi fanno aumentare l’offerta di lavoro e frenano la crescita salariale.
Dunque in forza di queste due modalità accade che il super-sfruttamento del lavoro nel Sud del mondo è funzionale al super-sfruttamento nel Nord.
Ciò che noi sappiamo, e di esempi in Italia ce ne sono moltissimi – pensi al lavoro in Capitanata nel Foggiano o nelle campagne di Latina e Roma – è che si osserva una marcata razzializzazione del lavoro migrante. In che modo questa razzializzazione contribuisce a creare precarietà e ad amplificare lo sfruttamento?
La razzializzazione è funzionale alla demarcazione di un segmento del mercato del lavoro. I mercati del lavoro nel Nord sono segmentati, con diversi strati di lavoratori che fronteggiano diverse condizioni di lavoro, di remunerazione e di precarietà. I migranti si collocano nel segmento più sfruttato. Sono poco sindacalizzati, molto poveri e molto ricattabili. Quindi accettano condizioni di lavoro e di salario piuttosto misere, consentendo alle imprese di non rispettare la legislazione del lavoro, i contratti collettivi, le tariffe salariali e gli orari di lavoro. Quindi: molto precariato, bassi salari, lunghi orari lavorativi, bassa sicurezza, ridotte prestazioni sociali. La possibilità di questo super-sfruttamento dei migranti consente alle imprese di super-sfruttare anche i lavoratori nazionali, almeno nei segmenti più bassi della forza lavoro, i quali anch’essi, se vogliono lavorare, devono accettare condizioni di lavoro misere. Si salvano in parte i segmenti più alti della forza lavoro locale, gli operai specializzati, i tecnici, gli impiegati eccetera. Ma anch’essi assistono quanto meno a un freno della crescita salariale.
Lei sostiene nel suo libro sull’imperialismo globale che nel contesto del governo dell’impero delle multinazionali, gli Stati assumono il ruolo di “gendarmi sociali”. In che modo la forza lavoro migrante viene governata dagli Stati all’interno del sistema capitalistico mondiale? Se è vero che c’è stata, almeno in Europa, una progressiva riduzione del ruolo degli Stati nazionali nell’economia e una progressiva deregolamentazione del mercato, in che modo questi processi si riflettono sulla gestione e sulla tutela del lavoro migrante?
La progressiva riduzione del ruolo dello Stato riguarda le politiche di welfare, non certo le politiche di sicurezza. Il gendarme sociale, tra le altre cose, tende ad assicurare la ricattabilità e la precarietà dei lavoratori immigrati, riducendo le loro tutele, rendendo difficile la concessione di permessi di soggiorno, ostacolando il riconoscimento della cittadinanza, facendo molto poco per l’integrazione sociale e culturale. Potrebbe sembrare che, ostacolando l’integrazione degli immigrati, lo Stato vada contro gli interessi del capitale in quanto scoraggia l’immigrazione. Ma non si riesce a scoraggiarla quando è in gioco la sopravvivenza. Quindi, ostacolando l’integrazione, il gendarme sociale fa proprio gli interessi del capitale, perché contribuisce a rendere più debole e più ricattabile questo segmento della forza lavoro. In realtà gli stati europei tendono a scegliere chi e quando sarà accolto e cercano di privilegiare la forza lavoro più qualificata. In tal modo peraltro contribuiscono a depauperare ulteriormente i paesi del Sud del mondo. Per fare un esempio scelto a caso, con il cosiddetto “Piano Mattei” l’Italia cerca di formare lavoratori in loco (come in Egitto e in Etiopia) e poi li fa venire in Italia, invece di impiantarvi imprese avanzate che creano posti di lavoro specializzato nei paesi d’origine.
Dunque è vero ciò che sostengono le destre e cioè che, se i lavoratori migranti sono in competizione con quelli nazionali, allora chi difende la classe operaia dovrebbe opporsi all’immigrazione?
Assolutamente no. La differenza tra destra e sinistra non sta nel riconoscimento dei problemi. Sta nelle soluzioni che si propongono. Mi è accaduto qualche tempo fa di partecipare a un dibattito sull’immigrazione. Lì ho sentito un certo compagno Cretinetti che si professava marxista il quale, di fronte alla proposizione secondo cui il capitale mette i lavoratori del Sud del mondo in competizione con quelli del Nord, ribatté che l’aumento dell’offerta di lavoro determinato dall’immigrazione non deprime i salari, come dimostra il fatto che in Germania ci sono più immigrati che in Italia ma anche salari più elevati. Evidentemente non aveva letto quelle parti del Capitale in cui Marx spiega che i salari dipendono dall’esercito industriale di riserva, la grandezza del quale è determinata non solo dall’offerta di lavoro ma anche dalla domanda. In Germania i salari sono più alti perché lì, oltre all’offerta di lavoro, è più alta anche la domanda.
Quali sono le soluzioni proposte dalla destra e dalla sinistra?
La pseudosoluzione proposta dalla destra è di bloccare gli ingressi, o almeno ridurli. Ma, come ho già detto, non si può riuscire a bloccare l’immigrazione. Al più si può ridurre il numero degli ingressi facilitando gli annegamenti. La soluzione di sinistra fa leva su una valida giustificazione economica generale per l’accoglienza (e questa è la seconda giustificazione economica di breve periodo) e cioè che l’immigrazione potrebbe favorire l’intera popolazione invece che solo i capitalisti. Se i governi mettono in atto politiche di piena occupazione, fanno dei migranti una risorsa per innalzare il benessere collettivo. In piena occupazione la crescita dell’economia è limitata dalle risorse. Perciò tutti i lavoratori immigrati fanno aumentare le risorse e il reddito nazionale e trovano lavoro senza competere con i lavoratori locali (se non si vuole accrescere troppo la produzione, si può puntare sulla riduzione dell’orario di lavoro).
La soluzione delle sinistre quindi deve essere: politiche di piena occupazione, accompagnate da politiche che favoriscono l’integrazione in modo da ridurre la ricattabilità dei lavoratori. Inoltre le forze politiche e sindacali di sinistra devono operare per incoraggiare la sindacalizzazione dei lavoratori immigrati in modo da realizzare l’auspicio di Jules Guesde: trasformare l’immigrazione da strumento di divisione della classe operaia in strumento del suo rafforzamento.
Alla luce delle riforme normative dell’Unione Europea, in particolare del nuovo Patto per le Migrazioni siglato nell’aprile 2024, e considerando le crescenti pressioni migratorie provenienti dal Mediterraneo, come valuta l’approccio dell’Unione Europea nella gestione dei flussi migratori?
Stiamo parlando di quello che è stato definito “Patto col diavolo”, un patto sulla gestione dell’immigrazione che si muove nella direzione di una politica securitaria mirante a consolidare la “fortezza Europa” invece che in quella di garantire “il diritto di asilo” applicando l’articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Questo non è il luogo adatto per fare una disamina approfondita del Patto. Perciò mi limiterò a fornire alcuni esempi delle sue aberrazioni.
Il Patto introduce la “finzione di non ingresso”, un principio pseudogiuridico che distingue l’ingresso fisico sul territorio da quello legale. In forza di questo principio il richiedente asilo che è fisicamente presente negli hotspot, non è considerato legalmente presente prima che le autorità non lo abbiano deciso. Il Patto impone ai paesi membri di impedire che gli stranieri non autorizzati entrino nel territorio dell’Unione. Perciò gli immigrati sottoposti ad accertamenti non solo non potranno muoversi sul territorio, ma neanche potranno accedere alle necessarie tutele giuridiche, non avranno diritto a un patrocinio legale gratuito per le pratiche che li riguardano e avranno tempi brevissimi per i ricorsi (così che potrebbero essere espulsi prima delle decisioni definitive sulle loro domande). In tal modo gli hotspot diventeranno dei luoghi di detenzione sistematica e arbitraria, anche di bambini (dei quali possono essere prese le impronte digitali se hanno più di 6 anni). Inoltre il Patto prevede una riforma del sistema di identificazione che rende più efficaci le operazioni di schedatura, con il prelievo di impronte digitali, immagini del volto e altre informazioni personali.
Poi prescrive una soluzione vergognosa al problema del ricollocamento degli immigrati tra le varie nazioni. Ha ignorato la proposta del Parlamento Europeo di imporre il ricollocamento obbligatorio. In compenso ha introdotto un principio di “solidarietà” che mercifica gli esseri umani: ammette la possibilità che un paese assolva al proprio dovere di solidarietà in forme diverse dall’accettazione degli immigrati sul proprio territorio, cioè erogando un contributo organizzativo e anche finanziario “di pari valore”. Ma valore di cosa? Ebbene, è il valore di una persona. Il Patto lo quantifica in 20.000 euro per migrante rifiutato. Non solo non è stato accettato il principio della ricollocazione obbligatoria, ma neanche l’istituzione di una procedura europea per il soccorso in mare. E scordiamoci l’introduzione di un visto umanitario europeo.
Un’altra regola prevede l’inasprimento dei controlli per le persone provenienti da Paesi considerati sicuri, in modo da facilitare i rimpatri. Le procedure di frontiera potranno durare fino a tre mesi invece che uno solo come in passato, norma questa che ha un chiaro scopo di deterrenza. Peraltro, se non ci sono accordi con i paesi di origine (cosa che accade molto spesso), gl’immigrati verranno “rimpatriati” verso i paesi di partenza (purché siano sicuri, ovviamente).
Come se non bastasse, per evitare perdite di tempo saranno considerati passibili di espulsione i richiedenti che hanno una probabilità di essere accolti non superiore allo 0,2. Come si calcola questa probabilità? Misurando la percentuale di connazionali che sono già stati espulsi. In altri termini, se su 5 immigrati da un paese 4 sono già stati espulsi, il quinto verrà espulso senza andare troppo per il sottile.
Il Patto che definisce i paesi sicuri tuttavia non prevede il divieto di distribuire finanziamenti alle forze armate e alle guardie costiere di paesi non sicuri che violano sistematicamente i diritti umani.
In sintesi, il Patto consiste in una normativa mirante a respingere quanti più immigrati possibile piuttosto che ad accoglierli e tutelarli. Per Amnesty international è un “punto di non ritorno sulla questione dei diritti umani”. In effetti rappresenta la formalizzazione della fine del diritto d’asilo in Europa.
Allora in che modo, secondo Lei, l’UE dovrebbe intervenire per garantire una maggiore tutela del lavoro migrante, bilanciando le esigenze economiche con il rispetto dei diritti umani?
Intanto bisogna capire che una riforma delle politiche dell’immigrazione non può essere disgiunta da una più generale e radicale riforma delle politiche economiche. Oggi le politiche fiscali e monetarie europee sono istituzionalmente impostate come politiche d’austerità. Ma, come ho già spiegato, una efficace soluzione del problema dell’immigrazione – una soluzione che la renda vantaggiosa per tutto il popolo e quindi la renda potenzialmente accettabile da tutti – richiede la piena occupazione. Quindi bisogna rivedere i Trattati (ammesso che sia possibile) in modo da imporre una strutturale predisposizione alle politiche di piena occupazione. Qui non posso soffermarmi sul contenuto di tali riforme. Perciò mi limiterò a rinviare a un mio recente contributo su questo argomento: “Per un new deal europeo”.
Per quanto riguarda più specificamente le politiche dell’immigrazione, secondo me dovrebbero prevedere il rispetto rigoroso dell’articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione e dell’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, assicurando un’ampia accoglienza, facilitando e accelerando le procedure di accertamento, e prevedendo l’espulsione solo nei casi di pendenze penali. Inoltre si deve creare una procedura europea per il soccorso in mare e istituire un visto umanitario europeo. I ricollocamenti tra le nazioni devono essere obbligatori e le quote di collocamento devono essere definite in base a due parametri, Il PIL e il PIL pro-capite, in modo che i paesi più ricchi accolgano più immigrati. Inoltre devono essere facilitate le concessioni di permessi di soggiorno; e devono essere accelerati i riconoscimenti di cittadinanza sulla base di un rigoroso principio di jus soli.
Infine tutti i paesi europei devono essere obbligati a mettere in atto politiche di integrazione sociale e culturale.
L’Italia, in linea con una continuità più o meno marcata rispetto ai governi precedenti, mantiene una chiara opposizione all’ingresso dei migranti, senza avviare strategie innovative per la gestione dei flussi in chiave economicamente sostenibile e finalizzate alla concreta integrazione. Come ritiene che lo Stato italiano dovrebbe intervenire per affrontare le criticità attuali e colmare i disagi legati alla gestione e all’inclusione dei flussi migratori?
Dovrebbe intervenire allentando le restrizioni poste dai governi precedenti ed estendendo le tutele giuridiche dei migranti, quindi aumentando il numero delle richieste accolte. Invece il governo Meloni ha appena fatto approvare dal Parlamento un decreto Flussi che è peggiorativo rispetto alla legislazione precedente. Ecco alcuni esempi. D’ora in poi la convalida del trattenimento dei richiedenti sarà attribuita alle corti d’appello invece che ai tribunali specializzati. Di conseguenza sarà necessaria una riorganizzazione degli uffici giudiziari di secondo grado che provocherà ritardi nelle procedure e prolungamenti delle detenzioni negli hotspot.
Vengono introdotte misure invasive della privacy dei migranti: se le autorità non riescono ad accertare le identità, potranno essere autorizzate ad accedere contro la loro volontà ai dispositivi elettronici in loro possesso, cellulari, smartphone eccetera.
Vengono posti ostacoli alle navi di soccorso, per le quali il termine per impugnare procedimenti di fermo amministrativo (per aver salvato migranti dall’annegamento) sarà ridotto da 60 a 10 giorni; non solo, ma vengono anche aumentate le multe.
Vengono segretati i contratti pubblici per la fornitura dei mezzi necessari al controllo delle frontiere e alle attività di soccorso. Così i finanziamenti per la guardia costiera libica, i centri di detenzione in Albania e nefandezze simili potranno essere tenuti nascosti. Vengono allungati i tempi per il riconoscimento dei ricongiungimenti famigliari, portandoli da uno a due anni. E non è stata accolta la proposta di estendere il concetto di famiglia ai fratelli e alle sorelle.
Last but not least, vengono definiti “sicuri” paesi come l’Egitto, il Bangladesh e il Marocco. Così si crede di poter aggirare gli ostacoli posti dai giudici europei e italiani alle deportazioni in Albania. È bene sapere che l’appartenenza a un paese sicuro mette l’autorità amministrativa nella condizione di non dover provare che il richiedente non è a rischio di persecuzione e quindi di poterlo espellere rapidamente. D’altra parte il decreto espone i richiedenti asilo alla restrizione delle garanzie amministrative e giudiziarie e a un’altissima probabilità di rimpatrio.
Be’, che ti potevi aspettare dalla nostra ducetta? Si capisce la sua esaltazione del Patto Europeo del 2024 come una “vittoria italiana” che ha assicurato “un enorme risultato per l’Europa”. E si capisce ancora meglio la sua convergenza con Orban almeno sull’obiettivo di accelerare i rimpatri e quello di ridefinire i paesi sicuri.
Qualcuno ha dei dubbi sul fatto che questo decreto Flussi non rispetta l’articolo 10(3) della Costituzione Italiana – “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”? Siamo certi che “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana” sia assicurato nei paesi che la Meloni considera sicuri? Per dirne uno: l’Egitto del caso Regeni e del caso Zaky – un paese con le carceri piene di oppositori politici e in cui il generale al-Sīsī, che è andato al potere con un colpo di stato 11 anni fa, nelle presidenziali del 2023 è stato riconfermato per un terzo mandato con l’89,6% delle preferenze?