Nel 569, l’Italia affrontò uno dei più grandi spostamenti di popolazione che avesse mai visto nel corso della propria storia. Centinaia di migliaia di Longobardi (secondo le stime circa 300.000), guidati dal capo Alboino, attraversarono le Alpi Carniche e si riversarono nella nostra penisola. Non erano solo maschi guerrieri; al loro seguito c’erano donne, bambini, i carri dove si trovavano tutti gli oggetti che costituivano il loro mondo, la loro casa. L’ “invasione” avvenne in un momento estremamente buio per l’Italia, appena uscita da un trentennio di guerre, carestie ed epidemie: emblematico il racconto del cronista bizantino Procopio di Cesarea, testimone oculare della situazione disperata in cui la guerra tra gli Ostrogoti (la popolazione barbarica che aveva occupato l’Italia dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente) e Bizantini aveva fatto precipitare il territorio. In uno degli innumerevoli assedi a cui fu sottoposta Roma durante il conflitto, Procopio ricorda di aver visto come la maggior parte della gente comune fosse ormai costretta a cibarsi di edera bollita: non c’era null’altro. Brulicavano sinistre storie di cannibalismo in tutta Italia, e la stessa Roma, da capitale di un immenso impero abitata da un milione di persone, si era ridotta ad un mare chiuso dalle ormai superflue mura aureliane, in cui galleggiavano sparuti villaggi che a stento racimolavano una decina di migliaia di abitanti. La calata dei Longobardi fu il flagello che diede il colpo di grazia.
Spesso i Longobardi sono stati dipinti come il peggiore dei gruppi barbarici da storici e letterati, i quali sostenevano che non fossero stati minimamente romanizzati (ovvero, a loro dire, nel corso della loro storia non erano quasi mai stati in contatto con la cultura, il diritto, le magistrature imperiali) e nemmeno del tutto convertiti al cristianesimo. Dalle opere di Manzoni, in particolare dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822) e dalla tragedia dell’Adelchi (1822), è scaturito un pregiudizio duraturo sulla dominazione longobarda nella nostra penisola, secondo cui l’élite militare germanica si sarebbe duramente imposta sulla popolazione italo-romana, decretando l’inizio della sottomissione del popolo italiano allo straniero, durata fino alla riunificazione del 1861. L’emblema della cattivissima reputazione dei Longobardi è l’episodio che riguarda Alboino e sua moglie Rosmunda, un tempo aneddoto abbastanza noto alle persone di cultura (infatti, è stato oggetto di varie tragedie). Il crudele re avrebbe obbligato la donna a bere dal cranio di suo padre ucciso (a sua volta, sovrano di un gruppo nemico); Rosmunda, per vendicarsi, uccise Alboino e fuggì nella Ravenna bizantina.
Eppure, senza i Longobardi, l’Italia non sarebbe la nazione che è oggi, poiché la nostra cultura è frutto anche dell’incontro tra quelle italo-romana e longobarda. Si guardi in primo luogo alla lingua: schiena, spranga, balcone, magone, stinco, zolla, bruno, strofinare, federa, sono solo poche delle innumerevoli parole di origine longobarda. La stessa cosa vale per nomi, cognomi e toponimi: Enrico, Astolfo, Federico; Grimaldi, Castaldo, Garibaldi, Ansaldi; Lombardia, Fara, Brera. Questi indizi linguistici sono solo un piccolo esempio a dimostrazione della fusione che avvenne tra i due popoli. Negli studi moderni, pertanto, non si parla più di “invasione” ma di “migrazione o “spostamento”, termini neutri non implicanti un giudizio di valore, che sarebbe assolutamente inutile e inappropriato poiché, nel bene e nel male, la calata dei Longobardi ha plasmato la nostra corrente cultura. Peraltro, essi senz’altro non furono la più feroce ed “incivile” tra le genti barbariche, come si è spesso pensato: il cristianesimo[1] era in parte diffuso e c’erano stati contatti con gli usi bizantini (molti mercenari longobardi avevano combattuto nella guerra contro i Goti). Infine, il famoso episodio di Alboino e Rosmunda va interpretato non con le categorie di pensiero moderne, ma calandosi nella mentalità dei Longobardi: bere dal teschio di un leader ucciso significava, per loro, assorbirne la forza e la saggezza. In altre parole, Alboino non aveva intenzione di imporre un orrendo castigo, bensì di tentare una riconciliazione con la moglie. Semplicemente, Rosmunda non ne aveva alcuna voglia: per questo si mise d’accordo con i nemici bizantini e presso di loro fuggì dopo l’omicidio.
Molti storici esitano a dare ai barbari che giunsero in Europa tra tra V e VI secolo il nome di popolo. Esso, infatti, è caratterizzato da una precisa identità etnica e culturale, che per questi gruppi di barbari non era affatto definita. Il latino gens è parso più adatto per indicare un gruppo di persone la cui identità si formò in fieri, cioè in concomitanza con le migrazioni e il contatto con i costumi dei popoli dei territori occupati. Il risultato di tali processi, detti di acculturazione, fu la creazione di una cultura nata dalla fusione e dalla mescolanza. In questo articolo affronteremo sinteticamente tre grandi ambiti: la religione, il diritto e il potere pubblico.
Il patrimonio religioso dei Longobardi al tempo della loro calata in Italia era inconsistente, o per meglio dire, estremamente fluido: convivevano paganesimi germanici (ad esempio è attestata archeologicamente l’usanza di inumare i corpi in trochi cavi), arianesimo[2] e cattolicesimo. Si narra che fu la regina Teodolinda a convertire al cristianesimo cattolico il marito, il re Autari (584-590), ma questa storia corrisponde a un format fin troppo diffuso, incentrato su figure femminili pie e devote che si impegnano per la conversione di un importante sovrano (lo stesso racconto, ad esempio, si trova a proposito del re dei Franchi Clodoveo), e, in ogni caso, non può essere prova del passaggio al cattolicesimo dei re successivi e del resto dei Longobardi. Eppure, l’editto di Rotari, la prima raccolta di leggi scritte dei Longobardi (643), si apre con la formula in dei nomine («in nome di Dio»): quale deus? Quello dei cattolici che credevano alla Trinità, o degli ariani? Non ci è dato saperlo, ma perlomeno attesta la diffusione del cristianesimo. Un certezza è presente solo nel codice di leggi di un altro sovrano, Liutprando (712-744), il quale si definiva pius ac catholicus princeps («sovrano devoto e cattolico»). Il processo di acculturazione era “completato”: i Longobardi, nella fase più matura del loro regno, erano oramai divenuti cattolici come i “conquistati”.
L’editto di Rotari (643) è un documento a dir poco fondamentale. La prima emanazione scritta della cultura longobarda fu un passo importante per la territorializzazione del diritto, vale a dire la fondazione di un sistema di leggi che si applicano su tutti gli abitanti di un territorio, indipendentemente dall’etnia. In linea generale, nei regni romano-barbarici che si formarono con il disfacimento dell’impero era in vigore inizialmente un diritto differenziato su base etnica: per i latini valevano certe leggi, per i germani altre. Molte raccolte giuridiche di questo periodo si applicavano solo alla popolazione germanica, mentre i discendenti degli abitanti dell’impero continuavano ad osservare le consuetudini locali e alcuni principi basilari del diritto romano. Nell’editto di Rotari i “romani” o gli “italici” non sono mai menzionati, il che si tratta di un primo passo verso una mancata differenziazione, che però non si può ancora escludere per questa fase, così poco documentata. Inoltre, colpisce il fatto che il codice di leggi sia scritto in latino, la lingua dei “vinti”, mentre pare pressoché dimenticata la lingua germanica di partenza, tanto che certi termini di origine longobarda sono sempre spiegati da una breve parafrasi in latino[3]. Questa territorializzazione del diritto è completa nel codice di Liutprando (712-744), in cui il sovrano dichiarava di emanare le leggi cum reliquis fidelibus Langobardis et cuncto populo adsistente («alla presenza degli altri fedeli longobardi e di tutto il popolo»): l’etnia non era più un fattore distintivo, un unico popolo si affiancava ad una piccola élite militare (i Langobardi del testo).
La territorializzazione si compì non solo nell’ambito del diritto, ma anche della gestione del potere pubblico, che, in quegli anni, era il potere del re. In origine si può rilevare più che altro la figura del rex gentis, capo innanzitutto di un esercito di stirpe germanica piuttosto che sovrano di un regno: Odoacre, colui che depose Romolo Augustolo, era un mero leader militare, mentre Liutprando o un suo successore, Astolfo (749-756), erano veri e propri titolari di un potere che si applicava su tutti gli abitanti del territorio di un regno, non solo di una certa etnia. Un esempio significativo di questo sono le leggi militari di Astolfo: in esse, l’arruolamento nell’esercito era aperto a tutti coloro che avevano il denaro necessario per acquisire le armi e l’armatura, e non solo ai guerrieri di stirpe germanica. Questa distinzione non era più rilevante.
Al termine di questo percorso possiamo chiederci: davvero i Longobardi furono l’ultimo dei flagelli che affossarono l’Italia di quel periodo?
[1] Non significa che i cristiani fossero più civilizzati dei pagani, ma, essendo stato il cristianesimo la religione della romanità, la sua presenza accelerava processi di inclusione e favoriva l’accettazione del nuovo gruppo sul territorio. Insomma, si trattava di un fatto di percezioni.
[2] Dagli inizi del IV secolo si era diffuso un cristianesimo che non riconosceva il dogma trinitario, a partire dalla predicazione del vescovo di Alessandria Ario. Il concilio di Nicea del 325 proclamò l’arianesimo eresia: da allora si diffuse soprattutto al di fuori dell’impero, dunque presso le popolazione barbariche. A favorirne la diffusione fu la maggiore comprensibilità rispetto al cattolicesimo.
[3] Ad esempio si riconosce la possibilità di praticare un campione (non è una parola latina), spiegando che era il combattimento che permetteva ad un accusato di stornare da sé l’accusa dopo aver sconfitto l’accusante.