Questo articolo è stato scritto da Maria Lucia Tocci e Domenico Birardi.
«La mente di Billy era come una stanza piena di gente, ognuna con la propria voce, i propri desideri e le proprie paure». Così descriveva il Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID) Daniel Keyes in Una stanza piena di gente. Definizione versatile e poliedrica, in grado di calzare la misura perfetta di un’altra sua gemella: quella dello Psycho di Alfred Hitchcock. Sì, perché l’analisi del DID non è esercizio riservato solamente a scienziati e ricercatori. Essa vive uno scollamento, una sorta di emancipazione depatologizzante che incoraggia il concetto a compiere un parricidio necessario nei confronti della tirannica figura del malato da manicomio. Una follia che smette di sragionare senza entrare nel rigoroso, limpido campo della ragione. Terra di mezzo, lo Psycho di Alfred Hitchcock. Mezzo uomo e mezza donna il folle Norman Bates. Ircocervo dissociato, ma al contempo unito nello stesso involucro dalla letteratura cinematografica dell’unico vero folle sulla scena, il regista.
Ma il nostro non è banale esercizio di contemplazione dell’estetica narrativa: il blasone di crisma della cinematografia successiva le viene già riconosciuto dai codici culturali nostrani. Qui, al contrario, si vuol dedicare qualche momento di riflessione alla dimensione etico-giuridica di Psycho. Norman Bates è un folle affetto da una forma di disturbo dissociativo dell’identità che ha ammazzato quattro persone, senza rendersene conto. Eppure vuole ammazzarne altre due, e forse altre ancora. Si può condannare un uomo del genere?
LA STORIA E IL LETIMOTIV – Prima di rispondere, vale la pena di occuparsi dell’opera. La struttura narrativa vive, sin dal rapporto col titolo, un ribaltamento delle ordinarie regole di narrazione. Se è vero che il titolo di un’opera non dovrebbe rivelare il suo contenuto – Eco docet -, Psycho fa esattamente il contrario. Da subito lo spettatore immagina di incrociare uno psicopatico. Eppure a figurare nelle battute iniziali non è il vero folle, ma un’impiegata desiderosa di cambiare vita, Marion Crane.
La sua scelta avventata di sottrarre 40.000 dollari al suo capo e di fuggire via con il denaro non si rivelerà a lei favorevole. Questo furto, motore narrativo delle prime sequenze, si configura come il «leitmotiv» della sua insoddisfazione. Le sue peripezie la conducono al Bates Motel, un luogo isolato e inquietante dove l’ombra della follia si insinua lentamente, quasi impercettibilmente.
TASSIDERMIA E SENSO DEL TRAGICO – La trama è resa di pregevole fattura dall’enigmaticità di alcune figure icastiche che non possono essere passate sotto la scure del silenzio. La prima è decisamente la follia, sottofondo sonoro che orienta lo snocciolamento della trama: impossibile per gli appassionati del genere non andare col pensiero alle analisi di Michel Foucault (Storia della follia in età classica). Bates è fuori dalla ragione, eppure sragiona alludendo ai suoi traumi e alle sue nevrosi; agli occhi di un osservatore attento, la patologia di Norman s’intreccia alla dimensione letteraria della sua biografia traumatica e vive una rigenerazione depatologizzante. Il linguaggio del folle è linguaggio di Dio, inaccessibile alla rigida ragione umana; e la sofferenza di Norman diventa appannaggio del sacro, mistero velato dall’indecifrabilità letteraria dei suoi comportamenti. Sacralità che poi ritrova il suo doppio, quando alla sragione si affianca la patologia e l’inghiottimento di ogni logica.
Norman Bates è anche un appassionato di tassidermia. E proprio qui troviamo la seconda figura. Imbalsamando gli animali lui cerca di fermare il tempo e di fuggire il tragico divenire nichilista. La sua pratica quotidiana, più che un hobby macabro, diventa una ribellione patologica contro le leggi della natura, un’ossessione per l’eternità che lo spinge a conservare non solo animali, ma anche il corpo della madre. In questa follia post-cristiana e antinaturalistica, Norman è l’emblema di un’umanità che cerca di arrestare il tempo e fermare il flusso della vita. Tragica, tragicissima follia.
L’IMPUTABILITA’ DI BATES – Il punto culminante del film, tuttavia, non è solo nella rivelazione della follia di Norman Bates, ma nella questione etica e giuridica che si apre nel finale. Bates è responsabile dei suoi crimini? Quattro omicidi e un tentato omicidio sono stati commessi per causa del suo corpo, eppure la dissociazione patologica che lo affligge lo porta ad una mancanza di consapevolezza. Va arrestato? Le sue personalità multiple agiscono indipendentemente dalla sua volontà conscia, talvolta persino entrando in contrasto tra loro. Egli è vittima o carnefice?
Tale dilemma è reso esplicito verso la fine attraverso la consulenza di uno psicoanalista che spiega la condizione di Bates. Quando si cerca di giudicare Norman Bates, pare di osservare le angoscianti vicende di Joseph K., che, incapace di comprendere le ragioni della sua imputazioni, galleggia disorientato nella densa, asfissiante mole di osservazioni legali e scientifiche. Sezionamento anatomico che la razionalità onnipotente compie ai danni del gracile animo di un folle. Criminale, affetto da un disturbo dissociativo dell’identità, violento, assassino, sono tutte qualificazioni soggettivanti che i differenti comparti del sapere attribuiscono a Norman Bates. Lo rapiscono dall’austera casa materna, lo conducono davanti ad un giudice e gli infliggono la punizione concordata da tutti gli uomini di ragione.
Se Norman Bates sia colpevole o meno non può stabilirlo il diritto positivo. Quello si afferma attraverso il suo processo di nascita. Vige, dunque s’applica. Deve piuttosto stabilire l’etica se un folle sia imputabile secondo i criteri della ragione. Oppure se, rinunciando a raccontare il nemico secondo i propri canoni, se la ragione debba rassegnarsi all’esistenza di una guerra millenaria con la sua antitesi, in cui solo il più forte e il più audace ha la meglio. Ostaggio del nemico, la mamma di Norman Bates intanto rimane ferma, immobile nella cella del commissariato. Proprio come “uno di quei suoi uccellacci impagliati”.