Questo articolo è stato scritto da Antonio Erario e Domenico Birardi.
Se ogni politica migratoria porta con sé l’ambizione di governare meglio i flussi migratori verso l’interno, l’accordo tra Italia e Albania, siglato nel novembre 2023, si configura come un illogico, turpe paradosso, capace di concretizzare il tentativo di esternalizzare la gestione delle frontiere. Al centro di questa intesa c’è la creazione di due centri per migranti in territorio albanese, destinati ad accelerare l’esame delle domande di asilo per coloro che approdano sulle coste italiane. La portata degradante dell’accordo si intreccia con una rete di dilemmi legali, morali ed economici che ne incrinano l’efficacia e ne mettono in discussione la legittimità. L’accordo Italia-Albania si manifesta come un crudo, freddo patto di deportazione anti-umanitario per il respingimento dei migranti.
NUOVE BARRIERE – L’accordo, articolato in 14 articoli e due allegati, prevede la realizzazione di un centro di identificazione nell’entroterra albanese, con una capacità massima di 3.000 persone, e di una struttura di primo approdo nel porto di Shengjin. L’Italia si riserva la gestione diretta dei centri, delegando alle autorità albanesi la sicurezza esterna. I migranti trasferiti in Albania dovranno ricevere risposta alla loro richiesta di asilo entro 28 giorni: un iter che si conclude con il trasferimento in Italia per i casi approvati o con il rimpatrio nei paesi d’origine per gli altri.
Sebbene l’accordo sembri inaugurare un modello di gestione condivisa delle migrazioni, la sua struttura appare più simile a un atto di outsourcing geopolitico. Così il governo Meloni tenta di trasferire le responsabilità politiche su un paese terzo – peraltro esterno all’UE -, e solleva questioni non solo giuridiche ma anche etiche. Pare del tutto scontato che esso sia il prevedibile corollario dei nodi irrisolti di una politica migratoria europea frammentaria e di un nuovo modo di concepire le frontiere da parte di una certa destra populista (si veda il fenomeno Trump e le frontiere con il Messico).
NEL LABIRINTO GIURIDICO: L’ILLUSIONE DEL “PAESE SICURO” – Sul piano legale, l’accordo poggia su un terreno instabile e discutibile. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha già evidenziato criticità nella definizione di “paese sicuro” per i migranti, un requisito fondamentale per giustificare il trasferimento di richiedenti asilo fuori dai confini dell’UE. Difficile ignorare questi aspetti, soprattutto se considerati alla luce delle convenzioni internazionali che garantiscono diritti inalienabili ai rifugiati.
Inoltre, la rapidità procedurale imposta dall’intesa – 28 giorni per valutare le domande di asilo – contrasta con la complessità delle normative europee, minacciando di sacrificare la qualità dell’esame delle richieste in nome dell’efficienza amministrativa. Deburocratizzazione che si traduce in destrutturazione delle norme di tutela dei diritti del rifugiato. Il rischio concreto è che la compressione dei tempi finisca per trasformare un processo delicato e altamente individualizzato in un meccanismo sommario, privo delle necessarie garanzie.
IL COSTO DELL’OPERAZIONE – L’accordo prevede uno stanziamento di 670 milioni di euro in cinque anni, una cifra che coprirà sia la costruzione sia la gestione delle strutture. Ciononostante, l’impatto economico di questo investimento solleva interrogativi di natura strategica. A fronte di un numero relativamente limitato di migranti processabili – una frazione del totale degli arrivi in Italia – i costi sarebbero sproporzionati rispetto ai benefici. Anziché indirizzare le risorse verso politiche di integrazione e accoglienza più strutturate, il Governo Meloni intraprende un’operazione dalla dubbia utilità pratica e dagli elevati costi economici.
Persino in Albania l’accordo ha generato reazioni contrastanti. Alcune comunità locali, come Gjader, vedono nelle strutture una fonte di opportunità economiche e occupazionali. Benefici che si scontrano con il timore di un deterioramento dell’immagine internazionale del paese, che rischia di essere percepito come un avamposto per la gestione della crisi migratoria europea.
L’ESTERNALIZZAZIONE DELLE FRONTIERE – Critiche politiche e morali si intrecciano nel dibattito sull’accordo. Le opposizioni in Italia e Albania accusano i governi di utilizzare l’intesa come un modo per eludere responsabilità dirette, delegando a un paese terzo il peso di una crisi che richiederebbe soluzioni europee condivise. Questo modello di esternalizzazione delle frontiere, già adottato in altri contesti, evidenzia i limiti strutturali di un’Unione Europea incapace di coordinare una risposta coesa e rispettosa dei principi fondamentali su cui si fonda (si vedano, a riguardo, gli Accordi di Dublino).
Sul fronte umanitario, organizzazioni come Medici Senza Frontiere ed Emergency hanno espresso preoccupazioni per le condizioni di vita nei centri albanesi e per il rispetto dei diritti dei migranti. L’idea di trasferire individui vulnerabili in un contesto spesso percepito come precario rappresenta una violazione implicita della dignità umana e una minaccia al principio di non-refoulement.
IL PASTICHE XENOFOBO – L’accordo Italia-Albania si pone al crocevia tra innovazione e compromesso, ma le sue fondamenta traballano sotto il peso delle contraddizioni che porta con sé. Se da un lato rappresenta un tentativo di rispondere all’urgenza della crisi migratoria, dall’altro rischia di replicare le stesse dinamiche che hanno finora impedito di affrontarla in modo efficace e sostenibile.
Tale accordo continua ad affrontare il fenomeno migratorio come un’emergenza da gestire nascondendone i processi attraverso forme di allontanamento territoriale dei luoghi, ove le adempienze burocratiche devono essere compiute. Lontano dagli occhi dei cittadini europei per nascondere il più possibile i riflessi morali che un trattamento inumano delle persone con storie di vita drammatiche ridotte alla categoria pseudogiuridica di immigrati potrebbero suscitare. O più tristemente allontanando l’orda minacciosa di barbari che corrompono i costumi occidentali con le loro diversità di usi, colore della pelle e costumi dalla percezione di quel corpo sociale ricompattato elettoralmente sotto la lente della paura e l’opposizione ad un feroce nemico artefatto dalla narrazione politica e da precise scelte normative.
L’accordo Italia-Albania è la dimostrazione del permanere dell’illusione tutta reazionaria che la sicurezza si ottenga allontanando e riducendo ad uno stato di non vita chi ne cerca una migliore tentando la via del mare e dei deserti, e non magari attraverso percorsi inclusivi che possano permettere a chiunque di vivere dignitosamente, apportando il proprio contributo alla società e alla comunità cui sceglie di appartenere.