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Di tanto in tanto l’Europa cerca di darsi uno scossone, quasi come se la parabola neoliberista – dionisiaca sfrenatezza del ricco che corre a sproposito lungo l’autostrada del mercato – necessiti alle volte di un check-up o di una ricognizione da parte del saggio del villaggio. Negli ultimi mesi è andata proprio così: la Commissione Europea, pressata dalle sfide economiche, industriali e geopolitiche dei prossimi anni, ha chiesto a Mario Draghi di sviluppare un rapporto strategico. Et voilà, il Piano Draghi.
Il sottosuolo del piano è costituito da un’evidenza di cui ormai si parla anche a sproposito: l’Europa si trova in una sfida esistenziale, e vede sul suo capo orbitare, alla stregua di scure acuminate, l’innovazione tecnologica, la decarbonizzazione e la competizione geopolitica.

L’EUROPA TRABALLA – L’Europa ha goduto di decenni di crescita relativamente stabile grazie a tre fattori fondamentali: il commercio mondiale aperto, la sicurezza geopolitica garantita dagli Stati Uniti e la dipendenza dalle forniture energetiche (segnatamente dalla Russia). Oggi questi pilastri stanno collassando, mettendo a rischio l’intero sistema economico e sociale europeo.

Il primo elemento critico è la fine dell’era di rapida espansione del commercio mondiale che ha sostenuto l’economia europea nel secondo dopoguerra. L’ascesa di barriere protezionistiche, la frammentazione delle catene di approvvigionamento globali e la crescente rivalità tra le grandi potenze (in particolare USA e Cina) stanno erodendo le basi dell’economia globale. L’Europa, che ha storicamente beneficiato di questo commercio aperto, si trova ora in grande difficoltà.

La seconda minaccia riguarda la dipendenza energetica dell’Europa, in particolare dalla Russia, evidenziata dalla crisi della guerra ucraina. La perdita della Russia come principale fornitore di energia ha reso l’Europa vulnerabile ai costi energetici volatili, colpendo duramente il settore industriale. Questo problema, già critico prima della guerra, è ulteriormente peggiorato con il conflitto.

Da ultimo, la protezione geopolitica garantita dagli Stati Uniti e dalla NATO non è più sicura come un tempo. L’era della stabilità geopolitica si sta dissolvendo – siamo, secondo una condivisibile espressione degli analisti contemporanei, in un mondo senza centro -, e l’Europa deve affrontare una crescente minaccia dalle potenze emergenti. Inoltre, l’UE ha scoperto di essere vulnerabile a minacce non convenzionali, come le pressioni economiche esercitate dalla Cina nel campo delle tecnologie critiche e dalla Russia nel settore energetico.

Già da queste prime constatazioni, si pongono in evidenza tre elementi fondamentali: senza un riposizionamento strategico le imprese europee perderanno sempre più terreno; è necessaria un’accelerazione della transizione verso le energie rinnovabili; da ultimo, è indispensabile un maggiore coordinamento europeo in materia di difesa e sicurezza economica.

COLMARE IL DIVARIO DI INNOVAZIONE E PRODUTTIVITA’ – Compiendo un’analisi sullo stato dell’Europa, non si poteva ignorare il divario tecnologico tra l’Europa e le altre grandi potenze globali. L’analisi di Draghi è impietosa: l’Europa ha perso la rivoluzione digitale e rischia ora di perdere anche quella legata alle tecnologie emergenti, come l’intelligenza artificiale (IA), i big data, il cloud computing e le tecnologie verdi.

Le imprese europee investono molto meno in ricerca e sviluppo rispetto ai loro concorrenti americani. Nel 2021 le aziende europee hanno speso circa 270 miliardi di euro in meno rispetto alle controparti statunitensi in questo settore. Tale gap si riflette direttamente nella capacità di innovazione delle aziende europee, che non riescono a sviluppare nuove tecnologie o a commercializzarle con la stessa efficienza degli Stati Uniti o della Cina. L’Europa è ancora fortemente legata a settori industriali maturi (come l’automotive e la chimica), mentre i settori tecnologici dirompenti sono dominati da aziende americane e asiatiche.

Da qui deriva anche la pressoché inesistente emersione in Europa di nuove grandi aziende tecnologiche negli ultimi cinquant’anni. Mentre negli Stati Uniti aziende come Apple, Google, Amazon e Facebook sono diventate protagoniste globali, in Europa nessuna azienda nata dopo il 1970 ha raggiunto una capitalizzazione di mercato superiore ai 100 miliardi di euro. Questo riflette una mancanza di dinamismo e di un ecosistema imprenditoriale favorevole alla nascita di nuove imprese tecnologiche.
Corollario è la fuga delle startup europee verso gli Stati Uniti. Tra il 2008 e il 2021, quasi il 30% delle startup europee che hanno raggiunto lo status di “unicorni” (cioè aziende valutate oltre un miliardo di dollari) ha trasferito la propria sede centrale all’estero, principalmente negli Stati Uniti. Questo esodo è attribuibile a diversi fattori, tra cui la difficoltà di accedere a capitali di rischio in Europa, la frammentazione normativa e la mancanza di un mercato unico efficiente.

Cruciale è il rapporto con l’intelligenza artificiale. Oggi il mondo è sull’orlo di una rivoluzione tecnologica guidata proprio da questo nuovo strumento, ma l’Europa è in tremendo ritardo. Solo una piccola parte delle prime 50 aziende tecnologiche globali proviene dall’Europa. Draghi mette in guardia dal rischio che l’Europa resti bloccata nelle tecnologie e nei modelli industriali del XX secolo, perdendo il treno dell’IA e delle tecnologie future. Integrare l’IA nelle industrie tradizionali sarà fondamentale per mantenere la competitività.

Sulla base di questa tanto lunga quanto necessaria disamina, il Piano Draghi individua il massiccio investimento nel capitale umano (lemma a tratti orwelliano, ma sovente passabile nella vulgata economica contemporanea) come condizione essenziale per la ripresa. L’Europa deve garantire che i lavoratori acquisiscano le competenze necessarie per affrontare le sfide della rivoluzione digitale. La formazione e la riqualificazione continua devono diventare una priorità per permettere ai cittadini europei di trarre vantaggio dalle nuove tecnologie e non essere esclusi dai cambiamenti industriali.

LA DECARBONIZZAZIONE – Altro aspetto fondamentale: la decarbonizzazione. Sebbene essa sia una delle sfide che l’Europa non può perdere, il suo consolidamento deve essere coordinato con il miglioramento della competitività industriale.

E da qui due principali criticità che il Piano Draghi pone in evidenza.
In primo luogo, sebbene i prezzi dell’energia siano diminuiti rispetto ai picchi recenti, le imprese europee devono ancora affrontare costi energetici significativamente superiori a quelli dei loro concorrenti statunitensi e asiatici. Ad esempio, il costo dell’elettricità in Europa è da due a tre volte superiore a quello degli Stati Uniti, mentre il prezzo del gas naturale è da quattro a cinque volte superiore. Questo gap è principalmente attribuibile alla mancanza di risorse naturali interne e alla complessità del mercato energetico europeo.

In secondo luogo, anche se l’Europa è leader mondiale in molte tecnologie pulite, come le turbine eoliche e gli elettrolizzatori, la crescente concorrenza cinese rappresenta una seria minaccia. La Cina, attraverso massicci sussidi statali e politiche industriali aggressive, sta rapidamente guadagnando terreno in settori cruciali come le batterie per i veicoli elettrici e le energie rinnovabili. Evidente corollario è che un’eccessiva dipendenza dalla Cina per queste tecnologie può minare la capacità dell’Europa di mantenere la sua leadership industriale.

La risposta suggerita è un piano congiunto per decarbonizzazione e competitività che coinvolga sia i settori produttivi tradizionali sia le nuove tecnologie pulite. Questo piano dovrebbe garantire che la transizione energetica non metta a rischio la competitività delle industrie europee, ma diventi piuttosto un’opportunità di crescita.

SICUREZZA E DIPENDENZA ENERGETICA – Continuando, nodo cruciale è la dipendenza produttiva per taluni settori rilevanti e la frammentazione della difesa. L’Europa dipende da una manciata di paesi per risorse e tecnologie critiche. Un esempio lampante è la dipendenza dalle importazioni di semiconduttori, con il 75-90% della capacità globale di produzione di wafer concentrata in Asia. Il Piano evidenzia così la necessità di ridurre questa dipendenza, in particolare dalla Cina, per evitare di trovarsi in una posizione di vulnerabilità economica e geopolitica.

Inoltre, come s’accennava prima, l’industria della difesa europea è estremamente frammentata. La mancanza di coordinamento tra gli Stati membri ostacola la capacità dell’Europa di produrre attrezzature militari su larga scala. Un esempio tra tutti: l’Europa produce ben 12 diversi tipi di carri armati, mentre gli Stati Uniti ne fabbricano solo uno. Questa mancanza di standardizzazione e interoperabilità indebolisce la capacità dell’Europa di agire come una potenza coesa.

GLI INVESTIMENTI – Per affrontare le sfide della digitalizzazione, della decarbonizzazione e della sicurezza, è banalmente necessario incrementare in modo significativo degli investimenti pubblici e privati. Secondo il Piano, la quota di investimenti nell’economia europea dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del PIL, portandosi ai livelli osservati negli anni ’60 e ’70. Questa è una sfida senza precedenti. Tanto per comprenderne la portata, il Piano Marshall, tra il 1948 e il 1951, fornì all’Europa investimenti pari all’1-2% del PIL.

Un altro punto chiave, prosegue il Piano, è la necessità di completare l’Unione dei mercati dei capitali. Il settore privato, infatti, da solo non sarà in grado di sostenere il peso degli investimenti necessari per la trasformazione dell’economia europea. Pertanto, sarà essenziale un coinvolgimento attivo del settore pubblico per finanziare progetti strategici in settori critici come l’innovazione tecnologica, la difesa e le infrastrutture.

RAFFORZARE LA GOVERNANCE – Uno degli ostacoli principali al progresso dell’Europa è il suo sistema decisionale lento e frammentato. Il tempo medio per approvare una nuova legge in Europa è di 19 mesi, e questo ritardo rende difficile rispondere rapidamente alle sfide globali. Diventa così necessaria una riforma della governance europea per accelerare i processi decisionali e aumentare la capacità dell’UE di agire con efficacia e tempestività.

Ciò avrebbe dei riverberi positivi anche dal punto di vista produttivo. In Europa più della metà delle piccole e medie imprese (PMI) indica che gli ostacoli normativi e gli oneri amministrativi rappresentano la sfida principale per la crescita. Il Piano Draghi sostiene che la semplificazione delle normative e la riduzione della burocrazia sono fondamentali per creare un ambiente più favorevole all’innovazione e alla crescita delle imprese.

L’APPELLO CONCLUSIVO – Questi gli estremi della questione. Il documento strategico si chiude con un appello alla cooperazione e all’azione rapida. Draghi afferma che procrastinare ulteriormente significherebbe condannare l’Europa a un declino irreversibile. Le riforme devono essere ambiziose, coordinate e democraticamente sostenute. Solo attraverso un impegno collettivo sarà possibile affrontare le sfide del futuro e garantire che l’Europa rimanga una potenza globale capace di garantire prosperità, sicurezza e libertà ai suoi cittadini.

Alla stregua di un elettro-shock, il Piano Draghi delinea una strategia per colmare le fallacie del neoliberismo europea. Se l’Unione europea sarà in grado di colmarle e di superare la sua frammentazione potrà dirlo solo il tempo e la storia.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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