Il 21 novembre 2024 non è stato un giorno come un altro per la storia delle relazioni geopolitiche e per il diritto internazionale. La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e Yoav Gallant, oggi semplice deputato ma ex ministro della Difesa. La decisione della Corte si inserisce in un contesto di lungo corso che coniuga le violazioni dei diritti umani e l’invasione dei territori in Palestina. La richiesta di emissione dei mandati era stata formulata anche per i leader di Hamas, ma oggi sono tutti deceduti a causa delle operazioni militari israeliane. La notizia, accolta con clamore bipartisan, rappresenta un passo significativo verso il riconoscimento della responsabilità penale individuale per i crimini commessi durante il conflitto israelo-palestinese.
IL CONTESTO E L’IMPATTO DELLA DECISIONE – Vale la pena di fare un breve riepilogo per dare contesto. La Corte Penale Internazionale, che si occupa di perseguire crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidi e crimini di aggressione dal 2002, ha avviato un’indagine per motu proprio del procuratore Karim Khan sui crimini commessi nell’ultima guerra di Gaza. A maggio di quest’anno è stata avanzata la richiesta di emissione dei mandati di arresto per Netanyahu, Gallant e i leader di Hamas. E solo il 21 novembre si è giunti alla decisione che ne ha disposto l’emissione. Dato che Mohammed Deif, Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh sono stati uccisi in operazioni militari israeliane, i mandati sono stati spiccati solo verso coloro che sono ancora imputabili.
L’emissione dei mandati di arresto rappresenta un colpo significativo alla loro libertà personale, alla loro immagine politica e alla posizione internazionale di Israele. Entrambi, infatti, non potranno più lasciare i confini israeliani senza rischiare l’arresto in tutti gli stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma. Quelli rimanenti, una trentina in tutto, includono anche stati storicamente critici nei confronti di Israele, il che rende ancora più difficoltosa la loro mobilità diplomatica e politica. L’impossibilità di Netanyahu e Gallant di muoversi liberamente si traduce in un drastico ridimensionamento delle loro capacità di rappresentanza internazionale, oltre che in un evento con un impatto mediatico e culturale di portata universale. Non si tratta più di semplici rivendicazioni delle piazze pro-Palestina, bensì di una questione di diritto che coinvolge la tutela dei valori fondanti dell’umanità.
IL DOVERE DELL’OCCIDENTE – La richiesta di arresto di Netanyahu da parte di un tribunale riconosciuto universalmente sancisce l’urgenza di una responsabilità collettiva: gli stati firmatari dello Statuto di Roma non possono più ignorare l’obbligo morale e giuridico di far rispettare le sentenze della CPI. Questo passaggio – con buona pace di tutti i sionisti – segna una svolta cruciale, trasformando le rivendicazioni spesso etichettate come “partigiane” o “antisemite” in un imperativo universale a difesa del diritto e della giustizia internazionale. L’azione della Corte, lungi dall’essere un mero atto simbolico, rappresenta un invito concreto a ricondurre la questione palestinese nei confini della legalità internazionale, riaffermando il primato dei diritti umani su qualsiasi agenda politica o militare.