Nell’estate del 415 a.C., la città di Atene era in subbuglio. Grandi preparativi erano in atto per una spedizione militare come non si era mai vista prima, diretta verso una terra dalle infinite ricchezze, la Sicilia. Al comando, uno dei politici più carismatici e geniali dalla morte di Pericle, il giovane “bello e dannato” Alcibiade. La polis in fermento guardava al futuro con aspettativa e timore, sperando che le risorse della Sicilia, e in particolare di Siracusa, portassero alla vittoria definitiva contro gli Spartani, con i quali da anni, con alti e bassi, combattevano un annoso conflitto: sarà noto come “guerra del Peloponneso”.
Questa polveriera di emozioni esplose prima del previsto. In una notte che sembrava come tante, un gruppo di giovani avvinazzati fece baldoria, al punto da compiere una bravata a dir poco sacrilega, la mutilazione delle Erme. Queste Erme erano delle statue del dio Hermes, protettore dei viandanti, ed erano collocate per tutta la città, lungo le strade, presso gli incroci e davanti alle porte, allo scopo di infondere protezione. La mattina seguente, gli Ateniesi si svegliarono e restarono sbigottiti nel vedere frotte di statue prive del volto e del fallo (il quale nell’antichità aveva spesso valore scaramantico). L’episodio generò il panico tra i cittadini, che lo interpretarono come un segnale infausto per la spedizione imminente, nonché come l’esordio di una congiura volta ad abbattere la democrazia ed instaurare un regime oligarchico. Furono promesse ingenti ricompense per chiunque rivelasse informazioni, con il risultato che si venne a sapere un fatto ancora più grave ed inquietante: nelle case di importanti aristocratici, erano messe in scena delle parodie dei misteri eleusini, e tra i coinvolti c’era l’uomo del momento, Alcibiade.
I misteri eleusini erano dei culti segreti e noti solo agli iniziati, e dovevano il loro nome alla località di Eleusi, in Attica. L’atto empio, in questo caso, non consisteva tanto nel trarre divertimento dalla loro caricatura, quanto piuttosto nel fatto che, in questo modo, giungevano a conoscenza dei misteri anche coloro che non erano iniziati. Si trattava di un episodio di gran lunga più sacrilego e infausto rispetto allo scandalo delle Erme, tuttavia la spedizione partì comunque; Alcibiade supplicò che si tenesse immediatamente un regolare processo per ribattere ad accuse così infamanti, ma, stando allo storico Tucidide, i suoi detrattori riuscirono a posticiparlo a dopo la partenza, per evitare che l’esercito appoggiasse il suo condottiero. Infatti, nel tragitto verso la Sicilia, Alcibiade venne richiamato ad Atene, ma il comandante si sottrasse alla cattura e passò dalla parte di Sparta; la spedizione, senza il suo carisma, si sarebbe rivelata un sanguinoso fallimento.
Di una vicenda così ingarbugliata, si vuole sottolineare innanzitutto come la democratica Atene e le sue istituzioni reagirono ad una situazione di emergenza, riguardante la politica e la stabilità interna, non trascurando il turbamento a livello di psicologia delle masse. Di fatto, vennero messe in atto una serie di forzature dell’ordinamento democratico, che passarono soprattutto per una eccezionale concentrazione di poteri nelle mani della boulè, il “consiglio dei cinquecento”. Invero, i principali organi della democrazia ateniese consistevano nella boulè e nell’ecclesìa («assemblea»); di norma, la prima era composta da 500 membri eletti a sorte e si occupava essenzialmente dell’iniziativa legislativa, ovvero di discutere quali leggi sarebbero state sottoposte all’assemblea di tutti i cittadini (ecclesìa), alla quale spettava il compito di approvarle tramite alzata di mano.
Una premessa. Le fonti su cosa accadde da un punto di vista istituzionale sono risicate e poco chiare, perché gli autori contemporanei ne davano per scontato il ricordo, mentre quelli successivi non avevano più accesso a tali informazioni. Risultano particolarmente preziose le orazioni di Andocide, un aristocratico che fu profondamente coinvolto.
In effetti, finora non è stato risposto ad una domanda che inevitabilmente aleggia nell’aria: chi furono i colpevoli? Fondamentalmente, non si sa con certezza, così come non si sapeva allora. Tuttavia, nel clima di paranoia e sospetto generale di quei giorni, tanto forti che l’agorà (la piazza centro della vita di qualunque polis) si spopolò perché ognuno temeva l’arresto, un certo Dioclide denunciò Andocide e buona parte della sua famiglia. Quest’ultimo trascorse un po’ di tempo in prigione, finché non rivelò i maggiori responsabili: i nobili membri dell’eterìa (un’associazione di aristocratici dalle stesse idee politiche) di un certo Eufileto, di cui Andocide stesso faceva parte. La soffiata causò l’ultima grande ondata di arresti, ma l’agitazione degli Ateniesi venne finalmente placata. In seguito, tuttavia, Andocide non ebbe vita facile, poiché non c’era nulla di più infame che tradire la propria eterìa, e, perdipiù, aveva ammesso la sua corresponsabilità negli scandali: dapprima visse per un po’ in esilio, dopodiché nel 399 a.C. fu processato e dichiarato colpevole.
Nell’orazione che Andocide scrisse e pronunciò in tribunale per difendersi, Sui Misteri, leggiamo: «Vi fu poi una seconda denuncia. Si trovava lì Teucro, un meteco, che se n’era andato di nascosto a Megara, e da lì informò la boulè che, se gli concedevano l’incolumità, avrebbe presentato sia una denuncia riguardo ai misteri, dato che era complice, contro coloro che li avevano celebrati insieme a lui, sia per ciò che sapeva sulla mutilazione delle Erme. Dopo che la boulè (era autokràtor) ebbe votato, andarono da lui a Megara e, portato qui, dopo aver ricevuto l’impunità, denunciò quelli che si trovavano con lui»[1].
Una breve parentesi ci fornisce una notizia non da poco, ossia che, nei giorni immediatamente successivi allo scandalo la boulè era divenuta autokràtor, dunque «plenipotenziaria», in modo che nessun’altra istituzione fosse al di sopra di essa. Il regolare funzionamento della democrazia fu sospeso, al punto che il solo consiglio dei cinquecento raggruppò diverse prerogative. In altre parole, l’emergenza portò a una semplificazione istituzionale, per cui ci si affidò unicamente alla boulè, senza più consultare l’assemblea di tutti i cittadini.
Il primo dei poteri speciali che si arrogò la boulè emerge dal brano sopra citato: a propria discrezione concedeva l’impunità (àdeia) a chiunque avesse dato delle informazioni verificate. I denuncianti potevano essere non solo cittadini, ma anche meteci (gli stranieri residenti; è il caso di Teucro, nel brano), schiavi e donne, insomma, tutti coloro che normalmente erano esclusi dal corpo civico. La maggior parte delle denunce furono avanzate proprio da queste ultime categorie, dato che , come si è detto, era una grande infamia tradire la propria congrega di aristocratici. Le accuse, inoltre, erano portate direttamente al consiglio dei cinquecento, mentre, normalmente, la gestione delle cause riguardanti i privati cittadini era di competenza dei magistrati e dei tribunali. La vita di moltissimi ateniesi di buona famiglia fu stravolta dalla valanga di delazioni, che costarono loro il sequestro e l’esproprio dei beni, talvolta –addirittura- il carcere; «il popolo non si ammansì nemmeno davanti alle calunnie più grossolane e continuò ad arrestare e gettare in prigione chiunque venisse denunciato»[2], scrisse Plutarco circa cinquecento anni dopo.
Risoluzioni così estreme furono prese in un quadro generale di paura e smarrimento, non solo da un punto di vista religioso, ma soprattutto politico. Tucidide screditava i timori che gli Ateniesi nutrivano nei confronti di una fatidica congiura contro la democrazia, ma il professor Canfora, in un’attenta ricostruzione[3] della vicenda proprio a partire dalle orazioni di Andocide, nota tra le righe i segnali di un effettivo complotto più vasto. In effetti, la confusione politica, soprattutto dopo la disastrosa sconfitta in Sicilia, non fece che aumentare, portando ad un colpo di stato oligarchico nel 411 a.C., per quanto breve. In quest’occasione, non a caso venne esautorata prima di tutto la boulè, a favore di un “consiglio dei 400” di nomina aristocratica: veniva così eliminata l’istituzione che si assumeva la gestione di un’emergenza nel regime democratico.
Dopo questa lunga immersione nell’antico, proviamo a ritornare ai giorni nostri. La nostra Repubblica si fonda sul principio di separazione dei poteri (inesistente nella democrazia ateniese), eppure, lo strumento più comune per rispondere a una situazione emergenziale è quello del decreto-legge (d.l.), un ordinamento legislativo che dovrebbe essere provvisorio, emanato dal governo, dunque, specialmente dal presidente del consiglio. Esattamente come nell’Atene antica, si attua una semplificazione delle procedure e un accentramento di poteri, così che, anziché passare per il parlamento, si abbreviano i tempi di promulgazione delle leggi, lasciando di fatto al governo parte del potere legislativo (normalmente, a questo spetta il potere esecutivo, mentre al parlamento quello legislativo). È nel ricordo di tutti un macro esempio di emergenza, ovviamente la pandemia di Covid-19: in quegli anni, il governo Conte II ha emanato ben 22 decreti-legge e 19 Dpcm (decreto ministeriale, imbandito dal Presidente del Consiglio dei Ministri). In molti hanno avuto la percezione di un abuso di potere, tuttavia, sembra proprio che un sistema politico basato su enti assembleari, come la repubblica italiana e la democrazia ateniese, quando viene messo alle strette, reagisce assegnando più poteri del normale a un determinato soggetto, poiché il pericolo impone velocità e risolutezza.
L’emergenza non coincide semplicemente con un nemico esterno (Sparta, il Covid), o un fatto oggettivo (lo scandalo), ma anche con un profondo disagio psicologico della comunità, cosa che può rendere estremamente vulnerabile una politeia («costituzione», «Stato») che si regge non sul governo dei pochi o del singolo, ma di una collettività. Tutto ciò non è esente da conseguenze: ad Atene, centinaia di cittadini persero tutto e vennero ingiustamente imprigionati sulla base di accuse totalmente infondate, al punto da dare una nota inquietante alle modalità con cui il demos cercò di mantenere il potere. Dal 2020, il numero di decreti non ha fatto altro che salire, limitandosi non solo alla gestione della pandemia, ma anche della ripresa e oltre; la maggior parte di questi, tuttavia, non rimangono temporanei, ma sono convertiti in legge dal parlamento. Nella XIX legislatura (2022-2024) sono stati approvati 69 decreti-legge e 131 leggi totali, di cui 55 derivano dalla conversione di d.l. (41,9%). La XVII legislatura (2013-2018), invece, ha emanato 100 decreti-legge e 379 leggi, di cui 83 di conversione di decreto-legge (21,9%)[4], dati che mostrano in modo lampante un significativo incremento del ruolo del governo in ambito legislativo.
Non si esprime un giudizio sulla storia delle istituzioni al giorno d’oggi, ma è certamente interessante notare la presenza di un cambiamento così significativo, riguardante l’essenza del nostro ordinamento, in seguito alla reazione a un’emergenza, proprio come nell’antica Atene.
[1] Andocide, Sui Misteri 15.
[2] Plutarco, Vita di Alcibiade 20.
[3] La lista di Andocide, Luciano Canfora, Sellerio editore, Palermo 1998.
[4] Tutti i dati sono disponibili su www.camera.it.