Ora che tutti i fondamenti possibili hanno perso la loro legittimità politica, nessuno osa contestare che il potere debba appartenere al popolo. La legittimità teoretica della partecipazione popolare all’esercizio del potere non può essere scardinata né contraddetta dai contemporanei, da Est a Ovest, almeno sino ad un epocale, disastroso fallimento. E visto che dopo la democrazia non vi è nessun altro ordine da erodere, è molto probabile che il circolo eterno di tutte le forme di governo possibile ricominci daccapo. Autocrazia, monarchia costituzionale, democrazia. E così ancora, senza posa, in una periodicità che può durare millenni, alternando i mutamenti politici alle rivoluzioni, e lasciando ai superstiti il fardello di cucire un senso addosso a questo moto circolare e perpetuo.
Contestualizzare la partecipazione popolare significa trovarsi faccia a faccia con la sua essenza più intima, scavando nella terra che l’ha ospitata sino a ritrovarne le radici. Storicizzare significa scavare nella storia alla ricerca della radice delle cose. Facendolo, magari ci si accorge che l’acuta osservazione fatta da Donatella Di Cesare non è poi troppo provocatoria: l’intima essenza della democrazia è antitetica rispetto all’ordine, alla gerarchia e al principio primo e immutabile (arché). Questa la democrazia radicale, intimamente sovversiva rispetto all’ordine rigido delle cose. Considerata come eternamente ostile ad un apodittico, immutabile elenco di superiori e subalterni, la democrazia porterebbe ad emersione la sua vera essenza anarchica (an-arché). Cosicché la sua fenomenologia si disvelerebbe come lo sgretolamento ciclico dell’autorità e dell’ordine: avvento di un nuovo, immutabile (dis)ordine sociale di matrice intimamente sovversiva. Sempre nuovo, sempre diveniente.
GENEALOGIA DELLA DEMOCRAZIA NELL’ETA’ CLASSICA- Partiamo dall’origine di tutto. La prima forma di partecipazione popolare istituzionalizzata è figlia legittima dell’Antica Grecia, segnatamente di Atene. Lì la rivolta del 508 a.C. contro gli aristocratici e le riforme di Clistene portarono ad un’ampia e dirompente sovversione dell’arché aristocratico. L’innovazione giuridica fu principalmente caratterizzata dall’introduzione delle dieci tribù e dalla riforma del boulé (diventato Consiglio dei Cinquecento), entrambe volte a spezzare il controllo delle famiglie aristocratiche e ad incrementare la partecipazione politica.
Successivamente le riforme di Efialte radicalizzarono ulteriormente il processo, limitando i poteri dell’Areopago e trasferendo il controllo politico direttamente all’assemblea popolare e al tribunale dei cittadini. La dialettica tra l’élite e il popolo rimase viva e infiammata, sino allo scoppio della guerra civile di Corcira del 427 a.C., conflitto emblematico delle tensioni sociali tra democrazia e oligarchia. Durante il conflitto, il popolo, che pur era detentore del potere istituzionale, subì l’effetto disgregante della faziosità, sollevando numerosi dubbi sulla stabilità del modello democratico-radicale.
Sebbene in Grecia si sviluppava un modello di democrazia che per l’epoca poteva considerarsi molto progressista, non tutti ne erano entusiasti. Sia Platone che il suo discepolo Aristotele ebbero molte riserve su questo fenomeno. Il primo predilesse la divisione rigida in classi e un rigoroso sistema di controllo e di selezione della classe dirigente: un governo fatto dai filosofi, in estrema sintesi, in cui ognuno avesse il suo rigido, immutabile compito (vi veda La Repubblica). Aristotele, dal canto suo, sviluppò invece una visione più articolata, riconoscendo nella politeia, una forma mista tra oligarchia e democrazia, il miglior sistema di governo possibile. In questo senso, la partecipazione non era concepita come un diritto di tutti, ma come una pratica che doveva essere regolata da criteri di merito e capacità.
Spostandoci verso una civiltà coeva e di rilevante grandezza, quella romana, possiamo già riscontrare che un vero sistema democratico in senso greco non si ebbe affatto. A Roma, infatti, solo il periodo repubblicano (509-27 a.C.) presentò elementi di partecipazione popolare, soprattutto grazie alle assemblee popolari e ai tribuni della plebe, ma la componente aristocratica aveva comunque una rilevante importanza. Il modello greco, istituzionalizzato e squisitamente politico, era difficilmente replicabile in altri contesti, tantoché la vera influenza popolare si manifestava in maniera non-istituzionale e decentrata.
IL POPOLO IN PENOMBRA – Anche il Medioevo non fu una fucina di democrazia in realtà. La partecipazione popolare si sviluppò in modo molto frammentato e geograficamente limitato. Tuttavia, sebbene il modello egemone fosse di tipo feudale e monarchico, ci furono alcuni eventi significativi che segnarono l’erosione dell’arché e l’affermazione di un principio di sovversione.
Uno dei più importanti fu decisamente la concessione della Magna Charta in Inghilterra nel 1215. Re Giovanni Senzaterra fu costretto a garantire diritti e libertà a un ristretto gruppo di baroni e mercanti, sancendo una serie di limitazioni al potere regio. Poco più tardi, segnatamente nel 1295, sempre nella stessa Inghilterra, si ebbe la nascita del Parlamento: il primo parlamento inglese. Edoardo I vi incluse rappresentanti non solo della nobiltà, ma anche del clero e della borghesia delle città, incrementando la partecipazione delle classi mercantili alle decisioni politiche. Meno di un secolo più tardi, precisamente nel 1356, fu la volta del Sacro Romano Impero: con la Bolla d’Oro si formalizzò un sistema di elezione imperiale che coinvolgeva i grandi principi elettori.
Ognuno di questi eventi è chiaramente ben lungi dal rappresentare una conquista democratica. Si tratta piuttosto dell’erosione di un arché regio e feudale che progressivamente si fa sempre più rilevante, sino agli albori dell’Età moderna.
L’EPOCA DELLE RIVOLUZIONI – È in questo contesto, quindi, che la modernità rappresenta un processo fondamentale per l’emergere della democrazia, continuando a svilupparsi grazie a una serie di eventi cruciali che estendono progressivamente la partecipazione politica.
Tra le date più significative si può citare la Gloriosa Rivoluzione in Gran Bretagna nel 1688, che culminò con l’emanazione del Bill of Rights nel 1689, riducendo il potere della monarchia e rafforzando quello del Parlamento. Si potrebbe considerare, senza troppo ardimento, questo evento come il principio della monarchia costituzionale britannica, perché, sebbene limitata, la rappresentanza politica cominciò a includere una classe sociale più ampia, parallelamente al rafforzamento delle istituzioni parlamentari.
Quasi un secolo dopo, nel 1776, la Rivoluzione americana stabilì una nuova forma di repubblicanesimo, con principi democratici come la separazione dei poteri e l’elezione diretta dei rappresentanti, anche se una grande parte della popolazione, come donne e schiavi, ne restava esclusa. Poco dopo, nel 1789, in Francia, un altra erosione dell’arché monarchico-assolutista fu raggiunto con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, e con la rottura del continuum storico segnato degli ideali (e dalla violenza) della Rivoluzione francese.
LA DEMOCRAZIA CONTEMPORANEA – Si giunge quindi, agli albori dell’Età contemporanea, con i tempi maturi per un incremento dell’influenza del popolo negli affari politici. L’Europa fu attraversata dai moti rivoluzionari del 1848 e con essi dalle richieste di maggiore rappresentanza, suffragio universale e diritti civili. La violenza e il sangue di quegli anni aprirono la strada per un’erosione totale degli ultimi baluardi del potere assoluto.
In Francia, nel 1875, nacque la Terza Repubblica, democrazia parlamentare più stabile e popolare; in Inghilterra, nel 1867, con il fu esteso il diritto di voto agli uomini della classe operaia; e in tutta Europa, Italia compresa, le masse iniziarono ad affacciarsi sulla scena della politica istituzionale con pieno diritto di cittadinanza. Da ultimo, i due conflitti mondiali sancirono, con i loro rispettivi dopoguerra, la definitiva erosione di ogni altro tipo di fondamento politico che non fosse democratico (sgombero degli arché). La democrazia, per assenza di rivali a livello teoretico, rimase (e rimane tutt’ora) l’unica forma di governo universalmente condivisa, sebbene incompiuta (permanenza dell’arché).
UN FENOMENO A VENIR – Come acutamente sosteneva Norberto Bobbio, la democrazia rimane un’idea in divenire, sospesa tra il raggiungimento delle sue promesse originarie e l’incapacità di superare ostacoli imprevisti. È un sistema che si espande continuamente ma che, allo stesso tempo, rischia di corrompersi quando incontra le complessità del potere invisibile, delle oligarchie persistenti, e del divario tra democrazia ideale e democrazia reale. Molte delle promesse di uguaglianza, trasparenza e partecipazione sono rimaste tradite e distrutte dal suo dinamismo.
E proprio tale dinamismo ritrova una certa contiguità con quel concetto di democrazia radicale che tanto efficacemente ha espresso Donatella Di Cesare. La democrazia non possiede alcun “fondamento” statico, poiché il suo eterno variare deriva da una natura anarchica intrinseca. Essa si disvela con una certa plasticità non appena si tenti una sua storicizzazione: democrazia come continua negoziazione e messa in discussione delle gerarchie esistenti, quindi fenomeno politico de-istituzionalizzato e intimamente de-centrato.
Ci pare, in conclusione, che la democrazia si manifesti come un fenomeno “à venir” – secondo la celebre espressione di Derrida -, in cui l’instabilità strutturale, se non imbrigliata in freni, blocchi o schemi normativi, permette l’adattamento ai mutamenti economici, sociali e politici. Democrazia è eterno ritorno del diverso.