Lucio Anneo Seneca in una delle Lettere a Lucillo, afferma che l’unica cosa di cui l’uomo dispone è il proprio tempo. Tra tutte le cose esistenti, esso è l’unico di cui noi siamo padroni, perché possiamo farne ciò che vogliamo.
Ma è davvero così?
In una società come la nostra dominata dal capitalismo ne abbiamo ancora il dominio? Riusciamo cioè a utilizzarlo per passare del tempo vacante? L’ozio è stato da sempre condannato, visto come uno spreco. È stato detto che è un vizio capitale, l’accidia che impedisce qualunque attività e che bisogna rifuggire facendo qualcosa, sfuggendo dal restare a pensare o addirittura a immaginare.
Una persona vicina a me, mi disse che era impensabile per lei passare del tempo a scrivere se non monetizzavo ciò che creavo, che era uno “spreco di tempo” dedicarmi alle passioni se non mi davano indietro qualcosa di materiale.
È questo un refrain, o mantra se vogliamo, che viene ripetuto ancora adesso: se facciamo qualcosa per puro piacere, dovremmo investire in essa guadagnando, altrimenti sarebbe una perdita.
Ben presto ti accorgi però che questo modo di pensare, o meglio questo dogma, serpeggia e viene alimentato quotidianamente da ognuno di noi. Si smuove il senso di colpa perché non siamo fruttuosi se restiamo sul divano ad ascoltare qualcosa; se giochiamo ad un videogame; se ci mettiamo a cucire; occuparci delle piante o addirittura leggere.
Il nostro daimon interiore, ormai del tutto convertito ad un’etica cristiano-capitalistica, ci dice che stiamo impiegando male il nostro tempo libero, innescando in noi un’ansia da prestazione da cui è difficile scappare e che ci conduce a due conseguenze: non farci godere quel momento di ozio così prezioso per l’animo umano e la nostra mente e in secondo luogo ci allontana materialmente da quella occupazione, perché troviamo così altro da fare.
Un impegno, una scadenza, una responsabilità sociale, qualunque cosa che possa soddisfare o placare quella vocina insistente che nonostante faccia parte di noi, allo stesso tempo ci aliena da noi stessi, rendendoci ancora una volta ingranaggi produttivi di un meccanismo che fagocita le nostre vite: il capitalismo.
L’idea di dover essere sempre produttivi, riempire le giornate con qualunque tipo di attività, oltre al lavoro, che non sia stare in pace con noi stessi è una invasione del nostro spazio vitale.
Lavora. Produci. Compra. Crepa.
Questi i comandamenti che ci sono stati donati come una Rivelazione per il nostro vivere quotidiano. E siamo circondati da idee e suggerimenti per arricchire il nostro vivere che se perdiamo l’offerta del venerdì o l’evento della settimana, allora siamo fuori, siamo inutili.
Non possiamo stare in vacanza (uso questo tempo nella sua accezione originale latina vacans, che vuol dire vuoto appunto) senza essere violentati da proposte e impegni e traguardi da conseguire.
Ad esempio se facciamo un viaggio in qualche località, avremmo a disposizione tappe e attività da conseguire, senza i quali la vacanza non avrebbe senso.
Ed ecco ancora una volta che lo Spirito del Capitalismo, che si aggira famelico per il mondo, ci raggiunge ovunque, con le sue promesse sfavillanti; pacchetti colorati a sconto, fatti tutti di vuota sostanza.
Malessere psicologico e iperproduzione sono due temi profondamente collegati da una causalità sempre più palese agli occhi di tutti. Esistono studi clinici dove si dimostra che sono collegati, il primo è la conseguenza naturale del secondo.
Per cercare di soddisfare e mantenere degli standard inarrivabili, si inscena un circolo vizioso, un Ouroburos potremmo definirlo per restare in termini di tempo. Un ciclo cioè in cui il malessere e le ansie possono essere placate apparentemente da un fare altro, un consumare e produrre bulimici.
Per poter soddisfare il nostro appetito temporale indotto, si decide a volte anche di lavorare oltre le ore stabilite, per potersi permettere ciò che viene proposto (oggetti e luoghi) e senza i quali non saremmo parte del Grande Ingranaggio, in questo modo però tagliamo fuori il tempo che dovremmo dedicare a noi stessi.
Noi siamo tempo e denaro da spremere.
Quando però si arriva al punto critico, quando cioè tanto il nostro fisico che la nostra mente reclamano quiete (e arriva per tutti prima o poi), ci rendiamo conto che la corsa che stiamo compiendo non ha vincitori, ma solo vinti in partenza. Ed è allora necessario riprendersi ciò che Seneca diceva, il tempo.
Esiste un’altra trappola temporale cui siamo tutti inevitabilmente esposti: i social.
Nella società fluida e liquida in cui viviamo, essi rappresentano un elemento importante, per non dire fondamentale. Demonizzarli verrebbe quasi spontaneo, ma non vedo il motivo. Si tratta di uno strumento nato per servirci in un certo senso e utile al nostro vivere quotidiano anche se pare il contrario. Ossessionati dal prostituire il nostro essere più intimo per dimostrare che esistiamo (posto, quindi esisto!) e per suscitare anche invidie a dimostrare che noi siamo.
Il confine tra l’utilizzo e l’essere utilizzati è labile, così sottile da non riuscire quasi a distinguerlo ed è proprio su questo punto che dovremmo insistere. L’educazione digitale ad esempio sarebbe una valida alternativa all’ora di religione, ma questa è una polemica che non solleverò certo adesso.
Quello che mi preme sottolineare è come i social siano un altro strumento che anziché risultare stimolante per un confronto costruttivo, ci mettono davanti a vite e contenuti idealizzati che portano ad abbassare l’autostima e il senso di inadeguatezza. In essi ci perdiamo inevitabilmente alla ricerca sempre di altro, di un quid, tanto da farci sprofondare in un tunnel dal quale riemergiamo con la consapevolezza di aver passato tanto tempo e non aver combinato nulla.
È questa la dimostrazione ulteriore della Cronofagia, una situazione che viviamo in pieno in ogni aspetto della realtà, dove ci viene chiesto di essere sempre di più, sempre più performanti; più attivi, utili e produttivi.
Lungi da me fare un discorso luddista sui social, io stesso ne faccio largo uso e consumo, ma bisogna ricordare che la realtà vista è quella dell’apparire, del dimostrare quanto siamo attivi e quanto sia facile poi adattarsi a certi modelli che non rappresentano l’effettività.
Aristotele nella sua Etica Nicomachea parlava di medietà nelle abitudini e nelle virtù. Ed è esattamente ciò che dovremmo fare ogni volta che ci apprestiamo a qualunque abitudine. Detta con le parole di un proverbio popolare: “il troppo stroppia”. Suonerà banale, ma è necessario ricordare sempre che il nostro essere è fatto di una molteplicità di necessità e di bisogni e che l’ozio, il tempo per noi e per nutrire la nostra anima, sono altrettanto importanti se vogliamo mantenere un minimo di equilibrio o armonia, evitando di guardarsi attorno ad un certo punto talmente inariditi e chiederci senza risposta, ad un passo dalla fossa: “E adesso, cosa ho fatto davvero?”.