Il concetto di desiderio, soprattutto in una prospettiva psicoanalitica e filosofica, è complesso e multidimensionale. Nella storia del pensiero si rintracciano vari tentativi di individuare la radice e lo scopo del desiderio, il quale sembra essere principio di movimento delle azioni umane, dalla trama affascinante e dolorosa la vita umana cerca sempre una direzione e un significato. Già l’etimologia del termine contiene una tensione, in quanto “desiderare” indica un de, ovvero una mancanza, una privazione da “sidera”, ovvero dalle stelle. Desiderare significa lontananza dalle stelle, dagli astri che nel passato erano considerati segni celesti o indicatori del destino, rappresenta quindi un sentimento di nostalgia o di mancanza di qualcosa che sembra fuori dal raggiungimento.
Nell’orizzonte di pensiero di M. Masud R. Khan, uno psicoanalista di origine pakistana che ha operato nel Regno Unito e che è stato uno degli allievi di Donald Winnicott, il desiderio assume una connotazione particolare nel contesto delle sue teorie. Masud Khan ha esplorato il desiderio principalmente in relazione alla struttura psichica dell’individuo e al funzionamento del sé. Per Khan, il desiderio è strettamente legato al concetto di “intimità” e alla capacità dell’individuo di sperimentare e mantenere relazioni profonde e significative. In questo senso, il desiderio non è semplicemente un impulso o una pulsione, ma un’esperienza che richiede una certa maturità emotiva e una relazione autentica con l’altro.
Khan si è concentrato su come il desiderio si sviluppi nell’individuo attraverso le esperienze precoci con le figure di attaccamento (come i genitori), e come queste esperienze possano influenzare la capacità di desiderare in modo sano e integrato. In altre parole, il desiderio, non è solo qualcosa che si desidera, ma è anche un riflesso della propria capacità di entrare in relazione con l’altro e con se stessi in modo autentico.
É un’area interna dell’individuo, in cui il desiderio può essere esplorato senza interferenze esterne, uno spazio cruciale per lo sviluppo di un senso di sé autonomo e autentico.
Nella psicoanalisi più in generale, il desiderio è spesso visto come un impulso inconscio che guida il comportamento umano. È collegato alla pulsione di vita (Eros) e si manifesta nel bisogno di connessione, amore, creatività, e soddisfazione sessuale.
Lacan, un altro influente psicoanalista, ha interpretato il desiderio come qualcosa che non può mai essere completamente soddisfatto, un vuoto strutturale che spinge l’individuo a cercare continuamente qualcosa che non potrà mai possedere del tutto.
In sintesi, per Khan, il desiderio è una manifestazione della capacità dell’individuo di creare e mantenere relazioni autentiche e di esplorare il proprio mondo interno in modo sano e integrato. Il suo approccio pone una forte enfasi sull’importanza delle prime esperienze di attaccamento e sullo sviluppo di un “spazio privato” sicuro, dove il desiderio può fiorire.
L’universo analitico di Lacan pone il desiderio come intimamente connesso al concetto di “mancanza” (manque). Questa mancanza non è qualcosa di meramente negativo, ma piuttosto la condizione fondamentale dell’essere umano, dove il desiderio nasce dalla mancanza, dal fatto che c’è sempre qualcosa di fondamentale che manca all’essere umano, qualcosa che egli non può mai possedere completamente. Questo concetto è rappresentato dal simbolo “objet petit a”, dove “a” sta per “autre”. L’oggetto del Desiderio: l’”objet petit a”Lacan introduce il concetto di “objet petit a” per designare l’oggetto del desiderio, un oggetto fantasmatico che rappresenta ciò che è irrimediabilmente perso o che non è mai stato posseduto. Non è un oggetto concreto, ma piuttosto una funzione simbolica che rappresenta la mancanza. È l’oggetto che si trova al di là di ciò che può essere raggiunto e che quindi alimenta continuamente il desiderio. Questa “a” è ciò che Lacan chiama la causa del desiderio, piuttosto che il suo oggetto finale. Il desiderio è anche strutturato come un linguaggio, ed emerge nella misura in cui l’individuo è immerso nell’ordine simbolico (la rete di significati culturali e linguistici che struttura la nostra realtà). Il soggetto entra nell’ordine simbolico attraverso il linguaggio, che lo separa dall’unità originaria con la madre (fase dello specchio). Questa separazione introduce la mancanza, che poi si traduce in desiderio. Un’altra faccia del desiderio è connessa all’Altro, un aspetto chiave è che il desiderio è sempre desiderio dell’Altro. Questo significa che il desiderio non è mai totalmente nostro, ma è sempre influenzato dall’Altro, inteso sia come le persone intorno a noi che come l’ordine simbolico più ampio. In altre parole, desideriamo ciò che crediamo l’Altro desideri o ciò che riteniamo possa piacerci perché è valorizzato dall’Altro.
Lacan parla anche della relazione tra desiderio e legge, in quanto orizzonte della norma il desiderio è inevitabilmente soggetto alla legge del linguaggio e della cultura, il che significa che è sempre mediato da regole, proibizioni, e strutture sociali. Tuttavia, proprio questa interazione tra desiderio e legge è ciò che mantiene il desiderio vivo, ovvero la proibizione non elimina il desiderio, ma lo alimenta e lo modella.
Dulcis in fundo l’Inaccessibilità del Desiderio, uno degli aspetti più tragici e affascinanti della concezione lacaniana è che esso è intrinsecamente inaccessibile. Il desiderio non può mai essere pienamente soddisfatto perché l’oggetto del desiderio (l'”objet petit a”) è essenzialmente irraggiungibile. Questo implica che il soggetto è sempre in una condizione di mancanza e di ricerca, spinto a desiderare senza mai raggiungere una soddisfazione completa. In sintesi, il desiderio è una forza strutturante che nasce dalla mancanza e che si configura attraverso il linguaggio e le relazioni con l’Altro. È qualcosa di fondamentale per la soggettività, ma allo stesso tempo intrinsecamente frustrante, poiché si basa su un oggetto che non può mai essere completamente raggiunto.
Doveroso riferimento all’interno della fenomenologia del desiderio è il riferimento alla concezione di Platone, filosofo greco e padre fondatore della filosofia, dalla cui prospettiva i concetti di amore (eros) e desiderio (epithymia) sono strettamente legati, ma possiedono sfumature diverse e complessità filosofiche significative. Amore (Eros), nel pensiero platonico, è una forza potente e trascendente che va oltre il semplice desiderio fisico. In dialoghi come il Simposio e il Fedro, Platone esplora l’eros come una forza che spinge l’anima verso il Bello e il Bene, portandola verso una conoscenza superiore. L’eros è quindi una forma di desiderio che, pur partendo dall’attrazione fisica, tende verso una meta più alta: la contemplazione delle Idee, in particolare dell’Idea del Bello. Nel Simposio, attraverso il discorso di Diotima, Platone descrive l’eros come una scala ascendente. Il percorso inizia dall’amore per un singolo corpo bello, passa attraverso l’amore per tutti i corpi belli, poi per le anime belle, e arriva infine all’amore per il sapere e per l’Idea del Bello in sé, pura e non contaminata dalla materialità. Il desiderio, o epithymia, è più spesso associato ai desideri corporei e materiali. Platone lo considera una delle parti dell’anima, in particolare quella più bassa, che è legata agli appetiti fisici e alle necessità corporee. Nella sua teoria dell’anima, esposta principalmente nella Repubblica, l‘epithymia è la parte dell’anima che deve essere governata dalla ragione (logos) e dallo spirito (thymos) per mantenere l’equilibrio e l’armonia nell’individuo e, per estensione, nella società. Platone riconosce che l’eros contiene in sé una componente di desiderio, ma lo eleva a una dimensione spirituale e filosofica. Mentre l’epithymia può legare l’anima al mondo sensibile e alla materialità, l’eros può trasformarsi in una forza che spinge l’anima a trascendere questi limiti, cercando l’immortalità attraverso la conoscenza e la contemplazione del divino. In sintesi, per Platone, l’amore è una forma di desiderio che, se ben orientata, conduce l’anima verso la verità e la bellezza suprema, mentre il desiderio materiale, se non controllato, può legarla al mondo sensibile, impedendole di raggiungere il suo pieno potenziale spirituale.
Un empasse originale nella comprensione del desiderio può essere ritrovato nella filosofia di Arthur Schopenhauer, in particolare nella sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Schopenhauer sviluppa una visione pessimistica dell’esistenza, nella quale il desiderio è visto come la manifestazione primaria della volontà, che è la forza fondamentale e cieca alla base di tutto ciò che esiste. Secondo la visione del filosofo tedesco il mondo fenomenico, quello che percepiamo e conosciamo attraverso i nostri sensi e la nostra mente, è una rappresentazione, ma la vera essenza della realtà è la Volontà. Questa Volontà è un impulso irrazionale, cieco e incessante, che si manifesta in ogni forma di vita, inclusa l’umanità, per cui il desiderio è una delle principali manifestazioni della Volontà negli esseri umani, che spinge costantemente l’individuo a cercare soddisfazione e piacere, finendo per generare dolore cosmico che si irradia irrimediabilmente. Schopenhauer descrive il desiderio come una forza perpetua e inestinguibile. Quando un desiderio viene soddisfatto, esso non porta alla pace o alla felicità duratura, ma al contrario, genera subito un nuovo desiderio. Questo ciclo infinito porta inevitabilmente alla sofferenza, poiché l’essere umano è costantemente insoddisfatto, in uno stato di continua tensione tra la mancanza e la momentanea soddisfazione, che però non risolve mai definitivamente il suo stato di inquietudine. A causa di questo ciclo interminabile, Schopenhauer arriva a una visione profondamente pessimistica dell’esistenza umana, dove la vita è caratterizzata da dolore, insoddisfazione e frustrazione, quindi l’unico modo per sfuggire a questa sofferenza, è la negazione della Volontà. Questo può essere parzialmente raggiunto attraverso l’arte, la contemplazione estetica, e in modo più radicale, attraverso l’ascetismo e la rinuncia ai desideri mondani. ovvero attraverso la rinuncia al desiderio e la negazione della Volontà per raggiungere una sorta di liberazione o sollievo dal ciclo della sofferenza. Questo non è visto come un conseguimento della felicità, ma piuttosto come un’evasione dal tormento perpetuo imposto dal desiderio e dalla Volontà. In sintesi, nella filosofia di Schopenhauer, il desiderio è la forza che alimenta la volontà e che condanna l’essere umano a un’esistenza di sofferenza. Il superamento del desiderio, e quindi della Volontà, è la via proposta per liberarsi dalla condizione dolorosa dell’esistenza.
Il desiderio occupa un ruolo centrale nella filosofia di Hegel, specialmente nel contesto della sua teoria dello spirito e del riconoscimento. Nella sua opera principale, la “Fenomenologia dello Spirito” (1807), Hegel discute il desiderio come un momento cruciale nel processo di autocoscienza e sviluppo dello spirito. Esso non è semplicemente un bisogno fisico o psicologico, ma è un impulso fondamentale che spinge l’individuo verso il riconoscimento di sé come essere autocosciente. L’autocoscienza emerge quando un essere riconosce che il proprio desiderio non può essere soddisfatto semplicemente attraverso l’appropriazione degli oggetti esterni, ma richiede il riconoscimento da parte di un altro essere autocosciente. A partire da questo momento Hegel sviluppa la famosa dialettica del padrone e del servo come un esempio del processo di riconoscimento mediato dal desiderio. In questa dialettica, due autocoscienze si confrontano, ognuna desiderando essere riconosciuta dall’altra, questo scontro può portare a una lotta per la vita e la morte. Alla fine, una delle due autocoscienze cede, diventando il “servo” che lavora per il “padrone”. Tuttavia, Hegel mostra che il vero riconoscimento non è possibile in questa relazione diseguale, poiché il padrone dipende dal servo per la sua identità, ma il servo non può riconoscerlo come pari. Il desiderio è come un momento iniziale e necessario del processo che porta alla libertà, che per Hegel si realizza quando l’individuo supera il desiderio puramente egoistico e trova il riconoscimento attraverso rapporti sociali e morali che rispettano la libertà reciproca degli altri. L’individuo, desiderando oggetti o il riconoscimento altrui, può sperimentare una forma di alienazione (Entfremdung) quando non riesce a trovare una soddisfazione piena o autentica. L’alienazione viene superata attraverso un processo dialettico in cui l’individuo riconosce che la sua vera essenza si realizza solo attraverso l’unione e la riconciliazione con l’altro e con la comunità. Il percorso della “Fenomenologia”, spinge lo spirito verso tappe sempre più elevate di autocoscienza, dal livello individuale a quello collettivo, culminando nella realizzazione della libertà nello Stato e nella comunità etica. In sintesi, nella filosofia di Hegel, il desiderio è molto più di un impulso naturale: è una forza dinamica che guida l’individuo verso la realizzazione di sé attraverso il riconoscimento reciproco, la lotta per la libertà e l’integrazione nell’ordine etico dello spirito oggettivo.
Tentare di comprendere l’essenza e il significato del desiderio non è un’impresa semplice, soprattutto da un’ottica post moderna, all’interno della quale lo stesso desiderare è inglobato in una logica di mercato e di consumo. Desidero, ergo sum, ergo consumo. Per tal motivo chiediamo soccorso ad un grande poeta e pensatore d’altri tempi, Dante Alighieri, con il celebre verso:
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
Egli vi fa ricorso nel momento in cui si accinge ad abbondare l’Inferno, luogo di perdizione, per incamminarsi attraverso un luogo di redenzione, il Purgatorio, sotto la guida spirituale di Virgilio. Le stelle che Dante vede rappresentano la speranza, la luce e il desiderio di liberazione dalle tenebre interiori, l’aspirazione di attribuire senso e significato ad un’esistenza che spesso ci appare priva.
Desidero, ergo sum.
Ad ognuno il proprio orizzonte di senso.