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Piero Gobetti, il meridionalismo settentrionale

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Piero Gobetti fu a suo modo sicuramente un intellettuale rivoluzionario nel vero senso della parola. E non perché abbia compiuto chissà quale atto militaresco, né per via di una qualche esoterica congiura di golpisti, ma per la portata realmente innovativa del suo pensiero. Egli nacque il a Torino il 19 giugno 1901 e spirò solo venticinque anni dopo a causa di un pestaggio fascista. Nella sua brevissima ma intensa vita ebbe modo di occuparsi della questione meridionale, da lui ritenuta la questione delle questioni. E ci pare necessario rendergliene il giusto merito in questa breve rassegna.

LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL SUD – La sua prospettiva fu dichiaratamente salveminiana, nella misura in cui approcciò al problema concependolo come parte integrante dei drammi dell’Italia unitaria. Questa prospettiva, che è propria e di Salvemini e del più anziano Fortunato, è stata la bussola intellettuale che lo ha guidato nelle sue analisi.
La sua intensa attività di editore ebbe particolare premura di analizzare la questione meridionale. Nel 1924, come già anticipato negli articoli precedenti, venne pubblicato l’Appello ai meridionali, e da quel momento in ogni numero de La Rivoluzione liberale fu dedicata una pagina alla questione del Mezzogiorno. L’appello che Gobetti e gli altri intesero rivolgere ai meridionali non ambiva a ricalcare il modello del proclama popolare e massivo, ma mirava a sollecitare uomini scelti, competenti e, soprattutto, capaci.

Il pensiero gobettiano emerse icasticamente attraverso il lavoro dei Gruppi della Rivoluzione liberale. Il programma era composto da quattro punti fondamentali: i primi due si occupavano del rapporto tra Nord e Sud, mentre il terzo e il quarto del sistema politico e della comunità internazionale. Nel programma dei Gruppi l’opposizione al fascismo venne accostata alla costituzione di un sistema economico nuovo e antiprotezionistico, di un’industria libera e di un proletariato forte. Chiaro è già qui che Gobetti non intendeva la contrapposizione di classe alla maniera gramsciana, e che preservava in seno alle sue tesi l’intento di non trasformare il sistema economico dell’epoca secondo il modello socialista.

LIBERALISMO MERIDIONALISTA – Per giunta, l’avversione nei confronti del paternalismo di Stato nei confronti del Mezzogiorno lo avvicina molto alle tesi dorsiane.
Proprio questa sua vicinanza a Dorso era riscontrabile nella percezione di una contrapposizione interna allo stesso meridionalismo. In un articolo critico su Pasquale Turiello, Un prussiano tra i briganti, egli dardeggiò le sue obiezioni contro la concezione statalista del problema meridionale. Questa era – a detta di Gobetti – l’espressione più viva ed evidente della divisione interna al meridionalismo: da un lato vi era chi concepiva soluzioni che derivassero dall’alto (il «paternalismo taumaturgico» di Dorso), mentre dall’altro si stagliava chi, come lui, concepiva le soluzioni popolari e democratiche. La mitizzazione dell’intervento dello Stato, quasi fosse un mero problema di governo del territorio, tentava dunque di risolvere la questione meridionale negandola.

Ad onor del vero, anche altri meridionalisti di quegli anni ebbero la medesima percezione statalista; tra i più eminenti annoveriamo Zanotti Bianco e Gianni Amendola. Guido Dorso, invece, era di avviso diverso e manifestava una certa attenzione per le nuove forze meridionali presenti nello scenario; egli auspicava una rivoluzione autonomista, dal basso, da contrapporre al paternalismo centralista che veniva dall’alto.

IL RUOLO DEGLI OPERAI – Sebbene Gobetti sia stato mestamente costretto a spirare anzitempo, anche nella sua breve vita ritroviamo una sorta di revirement; una seconda fase del suo pensiero, se così la si può definire, che genera una metamorfosi della concezione stessa del Mezzogiorno.


In questo periodo avviene un vero e proprio scollamento dalla dottrina salveminiana, che riteneva la questione del Sud il problema principe dell’Italia unita, e la prospettiva di analisi dell’intellettuale piemontese si sposta all’intera penisola. In ossequio alla onestà storiografica è bene anche sottolineare che l’Italia di allora era affollata da numerosi tumulti che, proprio alla stessa stregua della questione del Meridione, si imponevano come rilevanti e non procrastinabili (i moti operai del 1919 e del 1920 ne sono un chiaro esempio).
Un nuovo problema acquisiva vivida urgenza ai suoi occhi: la questione operaia. Il meridionalismo gobettiano si fa subito meticcio e annacquato, pur non perdendo di purezza e lungimiranza intellettuale. Per egli non v’era una questione esistenziale, intima come avvenne con i meridionalisti autoctoni, ma l’invincibile necessità di premurarsi del problema dell’unità d’Italia attraverso le sue due più imponenti questioni: il Sud e il proletariato. In questo Gobetti fu certo un grande organizzatore culturale, un pilastro, a suo modo, del meridionalismo.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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