Gio. Set 19th, 2024

Tommaso Fiore, il meridionalismo umanista

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Tra le file dei pensatori che avrebbero meritato tanto ma che ottennero poco c’è sicuramente Tommaso Fiore. Ebbe un ruolo di tutto rilievo nella storia del meridionalismo, eppure in moltissimi casi passa quasi per una figura di secondo piano, quando non inesistente. Oggi sarebbe stato attualissimo con la sua critica alla guerra e all’inselvatichimento del soldato. Uomini che ne ammazzano altri, questo lo riteneva la grande aberrazione del mondo contemporaneo. Anche lui, proprio come Gramsci, subì l’influsso determinante di Guido Dorso, ma poi la sua dottrina riuscì ad acquisire una connotazione del tutto singolare. In lui si avvertì lo sforzo di costituire un coniugio tra idealismo e realismo, con una coloratura del tutto inusuale in riferimento all’umanitarismo.

IL RUOLO DEI COMUNI E IL PATTO – Sempre immerso in un contesto costituito da lotte e tribolazioni sociali, egli ebbe modo di maturare una soluzione fondata sul ruolo dei comuni, quanto alla costituzione di un sistema sociale squisitamente meridionalista, e sull’azione del ceto contadino e medio, quanto all’origine delle energie che dovevano esservi impiegate. Tommaso Fiore concepiva i comuni del Mezzogiorno come delle entità pregne di grande cultura storica, ma allo stesso tempo impermeabili alla cultura cittadina. Ciò forniva anche la spiegazione delle numerose lotte che si inscenavano al loro interno, come prolungamento di un conflitto tra modernità e tradizione contadina. Continuò sulla falsa riga di Salvemini a sostenere che vi fosse un accordo tra la borghesia settentrionale e i latifondisti del Sud, il che rafforzava la necessità di un accordo speculare tra i subalterni.

Ci si sbaglia di grosso se si crede di trovare in lui solo un filosofo. Tutto il contrario: la vera radice politica della sua dottrina è possibile scorgerla al principio solo nei suoi scritti letterari. Opere del calibro di Lo sviluppo del pensiero di Leone Tolstoj, pubblicata nel dicembre 1910 su la Rassegna pugliese, furono – come sottolinea Giuliano Minichiello in Lezioni di meridionalismo – espressione di riferimento ideale che coniugava razionalismo cristiano e anarchismo pacifista. Così Minichiello:

Sul piano politico, un intellettuale meridionale non poteva non essere attratto dal mito dell’«umanitarismo che discende verso il popolo», dall’invito a «tornare alla natura», dal pregiudizio di un’azione corruttrice svolta dalla civiltà urbana (…).

L’ABERRAZIONE PER LA GUERRA E L’UMANITARISMO- Allo scoppio della Grande Guerra anche Fiore parteggiò per l’intervento. Durante quegli anni la sua dottrina oscillò tra il socialismo libertario di Salvemini e il radicalismo democratico di Antonio De Viti De Marco. Ma la sua esperienza socialista, quantomeno in riferimento all’attività di partito, ebbe vita breve. Il suo impegno tracimò in maniera preponderante nella produzione letterarie e saggistica. La cospicua portata umanistica della sua Opera è possibile ritrovarla nei saggi di quegli anni, come Uccidi! Taccuino di una recluta, o Eroe svegliato, asceta perfetto o ancora nel breve opuscolo Alla giornata. Non sono i postulati della sua dottrina politica e meridionalistica a vigoreggiare in questi scritti, ma i temi propriamente esistenziali e umanitari dell’orrore per la guerra e del compito immondo del soldato.

Maggior rilievo è dato negli scritti del periodo bellico all’ingiusta, immotivata natura della guerra in sé. Capace di livellare ogni diseguaglianza percettiva, ogni dislivello culturale e in grado di stagliarsi alla stessa maniera e agli occhi del borghese e a quelli del modesto contadino. L’uomo in guerra si tormenta per trovare la tragica motivazione dell’intervento e del combattimento, ma non lo trova; e si consegna così alla morte nudo, vuoto e maledettamente disincagliato da tutte le pastoie.

Gli anni della guerra, come accennò anche Gramsci, ebbero il merito di fondere la popolazione in un sol blocco: dove non era riuscito il Risorgimento riuscì la guerra. L’opera di livellamento esistenziale era oramai trasfigurata sul piano sociale, economico e politico: contadini, operai e ceti medi ritrovavano una comunione di destino e di intenti nella rudimentale, cruda e primitiva situazione di combattimento.
Proprio l’amalgama sociale risultante dal conflitto bellico attribuì all’intellettuale un ruolo differente ed impegnato. Ora che il popolo era stato uno d’arme, l’unione sociale e di classe diventava possibile: l’accordo tra piccola borghesia e contadini acquisiva nuova vividezza. Tuttavia, qualche anno più tardi, l’incameramento del ceto medio proprietario nel vigoroso movimento fascista contribuì a sterilizzare le prospettive meridionaliste. Lo squadrismo fascista e la sua vocazione intimamente trasformista permisero ai latifondisti del Mezzogiorno di continuare a dominare, e la questione meridionale fu tremendamente offuscata.

IL FASCISMO E L’INTRADUCIBILITA’ DELLA CULTURA MERIDIONALE – L’avvento del fascismo e la crescita della rivista gobettiana La rivoluzione liberale permisero a Tommaso Fiore di schierarsi con risolutezza sulla faccenda. Ciò che andava ricercato era appunto la democrazia liberale e il decentramento. E molto rilevanti sono l’Appello ai meridionali e le numerose lettere, comparse sulla medesima rivista, tutte rivolte ai suoi conterranei. Proprio attraverso le lettere Fiore sottolinea la difficoltà di immedesimazione del popolo settentrionale rispetto agli elementi essenziali, benché minuscoli ed impercettibili, della cultura meridionale. Gli intellettuali del Nord sarebbero riusciti con audace lucidità a delineare un modello della questione meridionale, se solo le due culture fossero state traducibili. La comprensione della questione meridionale era come inclinata e ostica, dal momento che essa era irriducibile ad una ferrea, rigida regola teorica. Bisognava quindi cogliere l’ethos del popolo meridionale, e ciò era possibile solo entrando nella microstoria, nelle tradizioni e nei costumi propri di quella terra. Facendolo sarebbe stato possibile comprendere la fatica titanica che doveva quotidianamente sostenere la gente del Sud.

Il contenuto delle Lettere pugliesi viene spesso accomunata, quanto ai fini, alle opere di Carlo Levi e De Martino, i quali ebbero il merito di dimostrare al mondo la complessa, intricata realtà culturale del Mezzogiorno. Non già uno schema serviva per comprendere questa terra, ma un pertinace lavorio di ricerca e interrogazione.

Chiaramente Tommaso Fiore era afferente a quell’area ideologica del socialismo liberale che intese superare le rivendicazioni collettivistiche originarie. Egli, alla stregua di Gobetti, intese il fascismo come una controrivoluzione dall’alto, e in quanto tale in grado di legittimare un diritto di resistenza delle masse oppresse. Non più la collettivizzazione delle terre o la contrapposizione di classe tra contadini e piccoli proprietari, poiché entrambe le cose avrebbero solamente favorito gli interessi dei grandi poteri economici e dei latifondisti. L’obiettivo squisitamente liberale del socialismo di Fiore era di includere nel nuovo patto sociale anche i piccoli e medi proprietari, di modo da costituire un unico fronte di resistenza contro le forze reazionarie e conservatrici.

IL SOCIALISMO NEL MEZZOGIORNO E L’AUTONOMIA – Uno dei meriti più onorevoli dell’intellettuale pugliese fu certamente quello di aver contribuito in misura pressoché determinante a fornire al socialismo italiano una piattaforma programmatica per il Mezzogiorno. I suoi articoli, comparsi sino all’ottobre 1926 sulla rivista Il Quarto Stato, permisero di delineare i problemi del popolarismo meridionale, ridottosi a «conservatorismo cattolico dei grossi agrari», e di individuare nel socialismo l’unica soluzione possibile per ovviare ai problemi del «privilegio protezionistico», bancario e capitalistico. Destinatari della politica socialista nel Sud dovevano quindi essere i ceti agrari, per nulla «inferiori a quelli industriali per disciplina e previdenza». Sempre Giuliano Minichiello afferma che:

l’intervento di Fiore su «Quarto Stato» debba essere letto tenendo presente che la tela di fondo su cui è intessuto questo intervento è il carteggio con Dorso dal luglio all’ottobre del 1926. Nella sua lettera a Fiore del 9 luglio 1926 Guido Dorso fornisce una risposta ai critici della sua opera difendendo la sua condanna della «conquista regia», anche nella sua versione più recente della «monarchia socialista», elaborata da Missiroli e Ansaldo e formulando in antitesi all’«unitarismo storico» un «neounitarismo» o «unitarismo integrale»; egli esprime la sua diffidenza verso il «Quarto Stato» e la critica del socialismo «unitario», che considera erede diretta della «tradizione riformista incapace di dare al Mezzogiorno una soluzione “italiana” che non sia né francese, tedesca, russa o tout-court socialista». Propone un programma autonomistico ricollegandosi alla sua concezione del Partito meridionale d’Azione con programma «neorepubblicano».

Sebbene poi Tommaso Fiore rifiuti l’idea dorsiana di dar vita ad un nuovo Partito meridionale d’Azione, egli condivide la percezione di una funzione liberale del comunismo italiano. Attraverso il confronto con Dorso si avvicina dunque a Gramsci.

IL VADEMECUM E IL LIBERALSOCIALISMO- Nel Vademecum esprime i pilastri del suo pensiero e, in una certa misura, anche della Costituzione repubblicana. È bene dirlo da subito, essi non incarnano che il consolidato, progressivo affermarsi di decenni di riflessioni e di impegno politico italiano; l’approdo di tali teorie non è dunque appannaggio del solo Fiore, ma di una più ampia e fulgida corrente d’opinione che staziona sotto l’insegna di liberalsocialismo italiano.

In tale breve libello egli delinea elementi come la repubblica parlamentare e rappresentativa, il vaglio di costituzionalità, le tutele sindacali e dei lavoratori, nonché il pluralismo politico e le libertà civili. E tale prospettiva, ci tenne a precisarlo, non collima per nulla con il vecchio concetto socialista:

Si vede già che no. Anzitutto non accetta il mito della dittatura del proletariato, né vuole altre dittature. E poi concepisce la libertà e la giustizia non sotto la specie di economia, ma di vita morale. Appunto l’aver concepito la giustizia sociale come un rapporto meramente economico e quindi meccanico ha dato origine ai vari totalitarismi […], alla conquista della ricchezza, divenuta meta suprema e unica ragione della vita […]. Se le possibilità iniziali devono essere uguali per tutti, ognuno deve veder garantito il proprio valore particolare, quel che si sia. Insomma, eguaglianza di uomini liberi sì, riscatto dei deboli e dei miseri, ma non formicolaio egualitario.

A prescindere dall’appartenenza ideologica, si converrà su un aspetto in particolare: Tommaso Fiore ha incarnato nel suo impegno politico, umano ed intellettuale lo spirito dei suoi tempi. Una costante, pertinace volontà di proseguire verso un superamento del totalitarismo comunista e della dittatura fascista, nonché la fisiologica dialettica liberale immanente a tutti i suoi atti, sono stati i punti medi della sua dottrina meridionalistica. Fiore era questo: il punto medio tra utopia e realtà.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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