Gio. Set 12th, 2024

L’ambientalismo coloniale nella Conferenza di Londra del 1900

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Immaginiamo un grande tavolone ovale di mogano, solido e profumato, con rifiniture ricercate e ornamenti ricamati a mano. Figuriamocelo piazzato nel bel mezzo di un grande stanzone sfarzoso e cinto sul suo limitare dai panciotti lussureggianti dei ministri degli esteri delle principali potenze europee del primo Novecento. Francia, Germania, Belgio, Italia, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna: c’erano tutte.
Ecco, questo fu grossomodo lo scenario in cui si svolse la prima conferenza internazionale sull’ambiente. In quel di Londra correva l’anno 1900 e il tema all’ordine del giorno era la tutela dell’ambiente e delle specie africane. L’unica nota fuori spartito fu l’assenza totale di rappresentanti della popolazione africana. Ma a dire il vero non si poteva parlare, nemmeno in maniera proverbiale, di un frettoloso conteggio senza l’oste, dacché all’epoca il popolo africano non poteva affatto incarnare la figura del proprietario dell’osteria.

L’ALLARME SOCIALE E LA SEMANTICA DELLA FORESTA – L’allarme sociale per lo sfruttamento delle foreste africane montò considerevolmente, soprattutto per via della smodata cupidigia dei cacciatori europei e della diffusione della dottrina del conservazionismo ambientale. Londra era pur sempre la patria dei Wordsworth, dei Ruskin e dei Carpenter: la sensibilità romantica di quella poesia continuava a tribolare intimamente la popolazione londinese. Il Times di Londra iniziava a sostenere un intervento subitaneo, onde si potesse preservare la vita di quelle specie martoriate. E gran parte dell’opinione pubblica iniziava ad interessarsi allo stato di salute delle terre di conquista.

Volendo dare uno sguardo alla cultura occidentale, potremmo soffermarci qualche attimo sul concetto di foresta. Lungi dal rappresentare un ozioso esercizio letterario, scrivere del mutamento semantico della foresta ci aiuterebbe di certo a comprendere quanto marcata fosse la rivoluzione culturale che l’industrialismo produsse negli anni del suo primo fulgore. Sia chiaro: una foresta è sempre una foresta, in qualunque epoca lo si percorra; ma gli intenti alla base della sua tutela cambiano nel corso del tempo, soprattutto a seguito della mutata percezione che si ha di esso.

Dal Medioevo all’Età moderna le foreste assunsero differenti significati. Dapprima per il popolo erano luoghi misteriosi, non ancora scandagliati, ma anche luoghi d’interdizione: la foresta, ricca di cacciagione rara e prelibata, era riservata ai re e ai signori d’alto rango. Dipoi, con l’avvento del Rinascimento, esse furono sede d’un canone estetico purista e naturale; bellezza armonica che era rintracciabile unicamente nelle regole insondabili della natura. Benché vereconde dinnanzi alla bellezza di quei luoghi, le società rinascimentali cominciarono un lavoro tecnico di recinzione delle foreste, includendole in più ampi giardini signorili. L’Età moderna, da ultimo, segnò un vero e proprio discrimine con il passato: la foresta cessò d’essere luogo mistico, riservato, naturalista ed estetico, e si tramutò in una risorsa da sfruttare.
Dal principio dell’Ottocento in poi sorsero i movimenti ambientalisti di cui ci siamo premurati di raccontarvi la storia. La foresta dismise, per non riprenderli mai più, i panni del luogo mistico e inviolabile, l’uomo industriale moderno la tramutò in una sorgente di materie prime da sfruttare.

L’AMBIENTALISMO COLONIALE E L’IDENTIFICAZIONE – I partecipanti della Conferenza di Londra si risolsero ad approvare una convenzione. Beneficiari di quella nuova carta dovevano essere animali, pesci e uccelli africani. Tuttavia, la selezione delle specie da proteggere non fu priva di biasimi: veniva imposto un divieto totale di caccia per gorilla, giraffe e scimpanzé, mentre per elefanti e gazzelle si imponevano solamente dei calmieri. Cosa davvero curiosa fu poi l’incentivo alla caccia delle «specie nocive», come leoni e leopardi. La prima conferenza internazionale sulla tutela dell’ambiente (coloniale) si dimostrava indegna delle fulgide menti che aveva dato impulso alle prime correnti dell’ambientalismo.

Qualche anno più tardi, nacque la Society for the Preservation of the Fauna of the Empire, con lo scopo di estendere la tutela delle specie animali a tutto il dominio coloniale britannico. Le sedi erano sparse in Africa e Asia ed erano gestite da cacciatori pentiti divenuti ambientalisti. La loro metodologia d’azione prevedeva una separazione in tre fasi: limitazione delle stagioni di caccia e delle licenze; individuazione delle specie protette; e creazione di riserve dedicate solo agli animali.

Proprio in questo periodo, nelle terre di conquista fiorivano i parchi nazionali, contribuendo a sviluppare nelle società di coloni un forte senso identitario. Un plastico esempio era fornito dai coloni britannici e olandesi nell’Africa meridionale. Fortemente radicati nella terra conquistata, erano motivati a preservarla con i parchi nazionali affinché i loro figli e nipoti potessero «vedere le praterie proprio come le videro i pionieri boeri». L’identificazione s’intrecciava alla creazione delle riserve protette in un crogiolo di sentimentalismo romantico e di apologia coloniale.

Usando come leva intellettuale la critica del conservazionismo ambientale agli usi di coltivazione delle popolazioni autoctone, l’ambientalismo coloniale poté oscurare le proprie responsabilità per la devastazione delle foreste e degli habitat africani. La società occidentale aveva, tuttavia, varcato il Rubicone della civiltà: la natura veniva definitivamente desacralizzata e ridotta ad oggetto di produzione.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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