Gio. Set 19th, 2024

Antonio Gramsci, il meridionalismo comunista

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“Rassegna di meridionalismi” è una rubrica del mercoledì che ha il fine di riannodare la storia del meridionalismo, dalle origini sino ad oggi. In questo articolo ci occupiamo di una figura tanto importante quanto controversa: Antonio Gramsci.

Quel pezzetto d’uomo, gibboso e dal profilo irregolare, non poteva realmente dirsi un uomo comune. La natura gli aveva posizionato sul collo un testone fuori dimensione, spesso e geometrico, che di certo avrebbe avuto un ruolo nell’avvenire di quel giovanotto dai tratti leopardiani.
Quando oggi si parla di Gramsci se ne trascura troppo spesso la biografia, s’ignorano l’umiltà delle origini, le difficoltà economiche, il lavoro minorile, le tribolazioni intellettuali, l’abbandono degli studi universitari, il giornalismo, la militanza politica, la galera, la corrispondenza con moglie e cognata – quella Tatiana così importante, e poi così sensibile -, e gli scritti dal carcere. S’ignora tutto ciò, magari per focalizzarsi su questa o quella frase detta in chissà quale giorno e su chissà quale testata; e così il contributo di Gramsci ai contemporanei – alle volte strumentalizzato da rappresentanti politici delle più disparate origini ideologiche – si risolve in una sorta di frasario aforismatico.

Lontano dall’essere un aforista qualunque, Gramsci contribuì in maniera pressoché determinante al pensiero comunista italiano e alla questione meridionale.
Originariamente schieratosi su posizioni estremiste ispirate all’autonomismo sardo, il suo pensiero ebbe un’evoluzione durante il periodo universitario, attraversò la Grande Guerra e culminò nella maggiore saggezza dei Quaderni del carcere. Gli anni dell’università furono caratterizzati dalla grande movimentazione operaia: la Torino dell’epoca non era solo un virtuoso polo industriale, ma anche un focolaio socialista di riorganizzazione della grande quantità di operai che vi lavoravano. Poi il primo dopoguerra portò ad emersione la condizione dei contadini meridionali, rendendo evidente la necessità di un intervento concreto. Questi due elementi trovarono un punto di naturale congiunzione nella perorazione dell’accordo sociale tra operai e contadini, vero e proprio punto d’arrivo dell’azione meridionalistica gramsciana.

L’UNIVERSITA’ E IL RUOLO DEGLI OPERAI – Della Torino operaia s’era occupato anche Gaetano Salvemini, che sull’intellettuale sardo ebbe un’influenza determinante. Gramsci sposava le tesi di Salvemini financo sull’antiprotezionismo: l’abbattimento della tariffa doganale del 1887 era diventata una priorità per il Sud e per i socialisti. Ma l’argomento delle tesi salveminiane che fu al centro della riflessione di Gramsci – a rigore analizzato dapprincipio da De Viti De Marco, benché con fini differenti – fu il ruolo rivoluzionario della classe operaia settentrionale.

Nei primi decenni del Novecento lo sviluppo dell’industria settentrionale aveva permesso la nascita di un coeso proletariato urbano. Gli operai del Nord avevano maturato un maggiore senso di appartenenza di classe, una profonda consapevolezza dei rapporti di produzione e dispiegavano un maggiore attivismo nelle file del partito socialista. Queste ragioni spinsero in quegli anni Gramsci a concepire un ruolo trainante per gli operai del Settentrione, guida anche per le masse contadine del Mezzogiorno.
Prospettiva che veniva rafforzata dal senso di coesione che andava maturando tra le masse subalterne di tutta la penisola e dal prestigio di cui godeva a Torino Gaetano Salvemini. Esempio di tale apprezzamento fu la scelta degli operai torinesi di proporre un seggio in Parlamento al molfettese, dimodoché potesse utilizzarlo per perorare la causa della sua terra.

IL PRIMO DOPOGUERRA E LA CONDIZIONE DEI CONTADINI – L’avvento della Grande Guerra e gli anni immediatamente successivi ebbero una portata dirompente per tutto il Paese e per la questione meridionale. Dove non era riuscita l’Italia risorgimentale ad unificare la penisola, riuscì la guerra: giovani combattenti di ogni parte d’Italia si ritrovarono a combattere fianco a fianco e maturarono un certo senso di appartenenza e di comunanza. Inoltre, gli effetti distruttivi, e in senso materiale e in senso economico, furono senza dubbio più acuti tra la popolazione meridionale.

Tali aspetti indussero Gramsci a rafforzare alcune intuizioni delle origini e ad osservare la condizione del Mezzogiorno in maniera differente. L’irreggimentazione e la comune vita di trincea aveva imposto un superamento della psicologia feudale in auge nel Mezzogiorno, in quegli anni le masse contadine avevano maturato una nuova consapevolezza politica. Senza dubbio non sfuggiva all’intellettuale sardo che le sommosse e le azioni violente di quelle genti fossero tuttavia ancora ad un livello primordiale di progettualità. L’occupazione delle terre, gli incendi dolosi e gli scioperi erano ancora acerbe «sommosse senza programma». Il 2 agosto 1919, Gramsci scriveva sull’Ordine Nuovo:

Nell’agricoltura sono sopravvissute forme economiche prettamente feudali, e una corrispondente psicologia. L’idea dello Stato moderno liberale–capitalistico è ancora ignorata; le istituzioni economiche e politiche non sono concepite come categorie storiche, che hanno avuto un principio, hanno subito un processo di sviluppo, e possono dissolversi, dopo aver creato le condizioni per superiori forme di convivenza sociale: sono concepite invece come categorie naturali, perpetue, irriducibili. In realtà la grande proprietà terriera è rimasta fuori della libera concorrenza: e lo Stato moderno ne ha rispettato l’essenza feudale, escogitando formule giuridiche come quella del fedecommesso, che continuano di fatto le investiture e i privilegi feudali. La mentalità del contadino è rimasta perciò quella del servo della gleba, che si rivolta violentemente contro i «signori» in determinate  occasioni, ma è incapace di pensare se stesso come membro di una collettività (la nazione per i proprietari e la classe per i proletari) e di svolgere un’azione sistematica e permanente rivolta a mutare i rapporti economici e politici della convivenza sociale.

Quanto alla critica allo Stato liberale, egli non pare discostarsi molto dalle critiche formulate ad inizio Novecento da Francesco Saverio Nitti. Il 7 febbraio 1920 scriveva sempre su L’Ordine Nuovo:

Lo Stato unitario italiano si è costituito per impulso dei nuclei borghesi industriali dell’Alta Italia; si è consolidato con lo svilupparsi nell’industria a danno dell’agricoltura, con un soggiogamento brutale dell’agricoltura agli interessi dell’industria; lo Stato italiano non fu liberale, perché non nacque da un sistema di equilibrio.

IL RAPPORTO TRA CONTADINI E OPERAI – Prima d’essere arrestato e di dare vita alla sua opera più corposa, Gramsci consolidò agli albori del fascismo le sue linee interpretative della questione meridionale. La chiave di volta della dottrina gramsciana era custodita nel binomio contadini-operai e si fondava nell’acquisizione da parte dei primi di ruolo politico consapevole, e nella capacità di organizzazione e progettazione insurrezionale dei secondi. Superare la condizione feudale era quindi un dovere categorico. Lo Stato borghese aveva avuto il merito di unificare la nazione e il territorio, rimaneva da unificare lo spirito e l’economia; secondo Gramsci questo potevano farlo soltanto gli operai e i contadini.
Anch’egli era, alla maniera fortunatiana, un intellettuale che riteneva la questione del Sud una «questione nazionale», propendendo per un decentramento amministrativo proprio come De Viti De Marco e Salvemini.

Si prestano a surrogato dell’epilogo di questo breve articolo le righe più pregnanti della Lettera per la fondazione de L’Unità del 12 settembre 1923:

(…) noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale. Personalmente io credo che la parola d’ordine «governo operaio e contadino» debba essere adattata in Italia così: «Repubblica federale degli operai e dei contadini».

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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