Spesso si tende a dar per scontato che l’arrivo di Giuseppe Garibaldi (l’«eroe dei due mondi» per una parte della storiografia più comune, un cinico e spietato conquistatore per altri) nella Sicilia borbonica sia stato un evento racchiuso in una dimensione mistica, un accadimento la cui memoria sarebbe stata perpetuamente intrisa di una gloria incontestata, o ancora, uno snodo cruciale per il di poco successivo processo di unificazione nazionale. Ictu oculi, pare dunque che ricostruzioni storiche di questo tipo non avrebbero lasciato (e difatti, ben poco lasciano) spazio a rivisitazioni storiche che potrebbero in un certo qual modo constatare la reale efficacia dell’azione di tale manipolo di uomini che da solo avrebbe sconfitto l’armata del Regno più grande della penisola italica. In realtà, a supporto dell’impresa garibaldina, vi fu una congiuntura favorevole di diversi fattori che globalmente contribuì – e non poco – a far sbarcare il Nizzardo a Marsala.
IL QUADRO GEOPOLITICO ANTECEDENTE – In “La situazione politico-diplomatica internazionale dall’armistizio di Villafranca all’annessione del Regno delle Due Sicilie”, il prof. Massimo Leonardis (1949) – al 2024 componente della Giunta storica nazionale – illustra come l’arrivo delle camicie rosse in Sicilia sia stato al centro di attente perlustrazioni dalle maggiori potenze europee del momento, specialmente dalla Gran Bretagna e dalla Francia che, a modo loro, hanno avuto un ruolo assai incisivo nel processo d’unificazione.
Nella Gran Bretagna vittoriana, un mese prima dell’armistizio di Villafranca – avvenuto l’11 luglio 1859 – alcune vicissitudini politiche han condotto all’instaurazione di una compagine governativa liberale che nutriva forti simpatie nei confronti del Regno del Piemonte. In particolare, la triade fortemente filo-sabauda era composta da Lord Palmerston (il Primo ministro che si definì “antiaustriaco a sud delle Alpi”), Lord John Russell (il Ministro degli esteri, dalle tendenze più libertarie) e William Gladstone (il Cancelliere dello scacchiere). Pur alla luce di tale contesto geopolitico e di tal configurazione nella politica interna, la regina Vittoria I non sembrava esser troppo entusiasta delle operazioni belliche e diplomatiche in cui il Regno di Sardegna si stava cimentando, in quanto temeva un’espansione dell’egemonia francese nella Mitteleuropa e un’alterazione delle linee legittime di successione. Comunque, l’armistizio si rivelò indirettamente essenziale per avvicinare il regno sabaudo con quello d’oltremanica.
Con la successiva pace di Zurigo del 10 novembre 1859, i due principali contendenti – Napoleone III e Francesco Giuseppe I – pattuirono che le loro nazioni si sarebbero impegnate a istituire una Confederazione di Stati italiani (includente anche il Veneto asburgico) che avrebbe avuto come Presidente onorario il pontefice. Si rilevano in un certo senso echi del pensiero giobertiano, già espresso nel 1843 in “Del primato morale e civile degli Italiani”, in cui si asserisce che:
il “primato” italiano consiste, secondo Gioberti, nel nesso indissolubile tra il principio cattolico e il genio nazionale (“pelasgico”) che ha operato sia sul piano dell’azione sia rispetto al pensiero.1
In ogni caso, non necessariamente i grandi dominatori agirono col reale obiettivo di concedere una patria agli italiani: è più probabile che la creazione di un nuovo Stato unificato avrebbe meglio soddisfatto le loro esigenze (inter)nazionali. Quel che fu stabilito a Zurigo non trovò effettiva realizzazione, complice anche l’opposizione della Gran Bretagna che ben poco apprezzava l’idea di un Papa-Presidente e la compresenza austriaca aldiquà delle Alpi. Altre eventuali soluzioni furono altrettanto declinate.
All’alba del 1860, Gran Bretagna, Francia e Regno di Sardegna sembrarono sul punto di aggregarsi militarmente in chiave anti-austriaca, e allo stesso tempo diveniva sempre più palese che sia Napoleone che Cavour erano disposti ben poco a mantenere inalterato lo status quo del momento: il primo ormai non era più intenzionato a conservare l’integrità dello Stato pontificio, mentre il secondo (tornato a capo del governo dopo le dimissioni seguite all’armistizio di Villafranca) insisteva circa l’annessione dei territori dell’Italia centrale, ove agenti piemontesi avevano già innescato rivolte che avevano causato la perdita d’autorità dei governanti locali.
La convergenza di interessi tra Parigi e Torino condusse in effetti alla ratifica di un trattato (avvenuta il 24 marzo 1860), in ottemperanza al quale furono annesse Nizza e la Savoia alla Francia, mentre il Regno di Sardegna avrebbe annesso le aree centrali della penisola mediante plebisciti-farsa (atti a comprovare anche dal basso la volontà di una unificazione che nella pratica era forzata: occorrerebbero infatti ulteriori approfondimenti – che non avverranno in questa sede – per constatare come i brogli e la violazione dei diritti politici individuali siano una pietra miliare del processo d’unificazione).
Tale accordo franco-sabaudo, aveva tuttavia compromesso definitivamente qualsiasi accordo con la Gran Bretagna – in cui la regina e molti membri del Gabinetto già avevano manifestato il loro dissenso in merito a nuove alleanze – che interpretava l’imperialismo piemontese e l’unificazione italiana come un’espansione del blocco napoleonico nel vecchio continente.
LA SPEDIZIONE DEL 5-6 MAGGIO 1860 – Con la conquista dell’intero bacino dell’Italia centro-settentrionale, il Regno di Sardegna aveva ampliato i suoi confini fino al Lazio, arrivando praticamente a ridosso del Regno delle due Sicilie, allora il reame più esteso e popoloso della penisola italica. Escludendo temporaneamente la possibilità di penetrare fino a Roma, i piemontesi si dedicarono dunque al completamento dell’unificazione con l’annessione del Mezzogiorno, e affidarono tale missione a Giuseppe Garibaldi. I sabaudi avevano già tentato di preparare il terreno meridionale all’ideale rivoluzionario – che a onor del vero era giunto alle classi alto-borghesi e aristocratiche, ma non agli strati più bassi della società, che rimasero fino alla fine fedeli prima a Ferdinando II e poi al figlio Francesco II.
Un’eventuale venuta di Garibaldi in Sicilia – poi organizzata in più aspetti dalla Società Nazionale (nata nel 1857 con l’obiettivo di perseguire l’ideale dell’unificazione con a capo i Savoia) trovò legittimazione anche da esponenti politici meridionali. Il futuro Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, Francesco Crispi (1818-1901, agrigentino di nascita), con la fallimentare rivolta della Gancia a Palermo del 4 aprile 1860 dimostrò a Garibaldi che i siciliani lo avrebbero accolto con giubilo al momento della sua venuta. Risulterebbe altrettanto errato, però, che non vi fossero collusioni anche al nord, anzi:
la spedizione dei Mille, preparata e partita con la connivenza più aperta del Re Vittorio Emanuele II e più cauta, in un primo tempo, di Cavour, (finanziatrici di fatto dell’impresa, seppur estranei a tale operazione navale) consentì di proseguire nel cammino verso la completa unità, utilizzando più spregiudicatamente l’iniziativa rivoluzionaria, ma profittando sempre del gioco diplomatico fra le Grandi Potenze.2
Con in dotazione due vapori apparentemente rubati, il Piemonte e il Lombardo (in realtà venduti a Nino Bixio da parte della società Rubattino, che con questo gesto ‘violento’ poté mostrarsi al mondo come estranea ai fatti), Giuseppe Garibaldi e i suoi «mille dugento seguaci d’ogni nazione, e pur con qualche uffiziale e soldato sardo in divisa, con quasi nessun napolitano»3 salparono da Quarto, presso Genova, all’alba del 6 maggio 1860.
Tutto fu perfettamente organizzato come se fosse stato un atto di forza dettato dalla sola sponte di Garibaldi e i suoi fedelissimi: la rabbia dei Rubattino, l’«ordine rumoroso da Torino a Genova» per far sorvegliare le coste e catturare le armi. Un proclama alla flotta sabauda addirittura “imponeva di impedire lo sbarco dei garibaldini in Sicilia”, quantunque fosse palese che il reale intento dovesse esser quello di proteggerlo. In effetti, il contrammiraglio Persano si premurò che ciò avvenisse con la dovuta discrezione.
Dopo una breve sosta a Talamone, sul litorale toscano – per rifornirsi di munizioni e armamenti – e qualche altro giorno di viaggio, la notte del 10 maggio le camicie rosse s’ascosero dietro le isole di Levanzo e poi Favignana per poter poi raggiungere la destinazione la mattina dopo.
Contemporaneamente, giocò un ruolo fondamentale anche la Gran Bretagna che, pur inizialmente, non approvava tale operazione poiché temeva che Cavour sarebbe stato disposto a tutto pur di ottenere il Meridione. Quando Garibaldi partì:
il ministro a Napoli Henry Elliot (…) aveva scritto che era «impossibile difendere il governo Sardo per aver permesso che una tale vera e propria spedizione corsara fosse apertamente organizzata dai suoi porti.»
Tuttavia, successivamente, sia Elliott che altri esponenti politici inglesi, come Lord Palmerston – si convinsero che un regno unitario avrebbe gravitato sicuramente nell’orbita britannica e avrebbe preso le distanze dalla Francia. Si legge, in una lettera di Lord Palmerston alla regina Vittoria:
Considerando la generale bilancia dei poteri in Europa, uno Stato italiano unito, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava il miglior adattamento possibile (…) l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno.4
Per questo, la navigazione delle camicie rosse venne di fatto ulteriormente supportata da alcuni navigli inglesi, in particolare la HMS Argus e la HMS Intrepid. Queste lasciarono improvvisamente il porto di Palermo la notte del 10 maggio e approdarono presto a Marsala, facendo discendere i loro rispettivi equipaggi come fossero di passaggio. Nei pressi della città lilibetana erano presenti – previo avviso da Napoli – una fregata, la Partenope, e due vapori, il Capri del capitano Acton e lo Stromboli del Caracciolo, tutti appartenenti alla Regia marina borbonica. Tuttavia, a onor del vero, pochi significativi provvedimenti erano stati presi al fine di poter eventualmente contrastare in modo efficace l’arrivo del Nizzardo – benché sin da subito si previde che Marsala o Mazara del Vallo sarebbero stati plausibili punti d’approdo.
La mattina dell’11 maggio, Garibaldi venne a sapere che a Marsala non v’era nave borbonica, e perciò s’affrettò ad avvicinarvisi, pervenendo appena poco dopo i due vascelli inglesi partiti nottetempo da Palermo. I legni borbonici non intervennero subito, ma vi impiegarono molto più tempo nel tentativo di coinvolgere anche la Partenope, che fu traghettata. Nel frattempo, Bixio si accorse dell’arrivo dello Stromboli e si affrettò a far arenare la Lombardo a cui era a capo per distoglierne l’attenzione, al contempo iniziò le operazioni di discesa. Lo Stromboli fece per far fuoco, ma in questa circostanza fu provvidenziale l’intervento britannico:
l’inglese Ingrham comandante dell’Argo, s’accosta dicendo avere gente a terra, aspettasse che prima tornassero: ciò basta a intrametter lunghe discussioni, che parvero maravigliose anche a certi ‘candidi’ scrittori garibaldesi. Gl’Inglesi a terra, benchè chiamati dal Marryat capitano dell’Intrepido, tardarono tanto da dar campo agl’invasori di scendere, e ascondersi (…). Così lo Stromboli e ‘l sopraggiunto Capri si stettero a veder lo sbarco impunemente, nè pensarono a trarre un colpo solo al Piemonte che l’affondasse con gli avventurieri: sol dopo due ore il Capri tirò su’ pochi ancora sparsi per molo, ma non da far male (…). Qualche Garibaldino stampò che i Napolitani non impedirono lo sbarco, ‘per prudenza’.5
Nella sua presunta neutralità, la Gran Bretagna offrì un ausilio fondamentale per l’arrivo di Garibaldi in Sicilia. Dagli stessi scritti di Garibaldi si legge:
La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro; (…) io fui per la centesima volta il loro protetto.6
I duo-siciliani non poterono, vollero o riuscirono neanche a radunare le truppe di terra stabilite nei pressi della zona, che sarebbero state ben sufficienti a bloccare la penetrazione degli occupanti, alla luce del loro esiguo numero e delle scarse risorse (benché in realtà lo stesso Persano avrebbe poi favorito lo sbarco di nuove reclute anche nei tempi seguenti). Al contrario, i borbonici si sforzarono senza senso di recuperare le due navi ormai deserte e di traslarle a Napoli, dove vantarono questo inutile gesto.
Tra l’altro, Russell fu chiamato in giudizio in Parlamento sul perché avesse favorito lo sbarco in Sicilia di Garibaldi, e rispose che i navigli britannici erano lì per la tutela dei sudditi inglesi, dando meno peso allo sventato attacco dei borbonici ai garibaldini.
Una volta completato lo sbarco, i garibaldini si adoperarono per ingannare un funzionario borbonico stanziato a Trapani sostenendo che i due bastimenti contenevano zolfo. Ma nonostante tale guadagno di tempo, presto le camicie rosse si resero conto che qualcosa non funzionava: tale Giuseppe Bandi sostenne che la popolazione lilibetana accolse i garibaldini (di ciò rammaricati) «su per giù come si accolgono i cani in chiesa». Quando i rivoluzionari cominciarono a propagandare l’ideale unitario, a inneggiare a Vittorio Emanuele e a instaurare un clima di paura tra i cittadini:
nessun Marsalese risponde, stan deserte le vie, il municipio non si trova; e quando l’invasore chiede l’atto di riconoscimento a Vittorio, niuno va alla casa comunale. Di ciò scontento, mette lo stato d’assedio; per tema d’aggressione non alloggia nelle case, sta raccolto, e dorme in chiese e sulle vie. Pria dell’alba si schiera sulla porta di Calatafimi e con trentacinque carri di bagaglio si volge a Salemi.7
Le reazioni all’arrivo di Garibaldi furono a dir poco diametralmente opposte: oltre a coloro che lo «incielavano, dicevanlo il figlio eroico d’Italia»8, v’era chi lo definiva come un autentico pirata, un bandito, l’Anticristo. Dall’Europa a Torino pervennero – per sincera indignazione o per ironia – rimostranze d’ogni dove, ma complessivamente si trattò di un clamore non seguito da reazioni concrete.
L’INIZIO DELLA FINE – Garibaldi avrebbe assunto presto la dittatura dell’isola in nome di Vittorio Emanuele II, e avrebbe cominciato a marciare verso l’interno dell’isola alla volta di Palermo. La situazione sarebbe deteriorata velocemente, con una serie di tremende vittorie garibaldine ai danni di un esercito poderoso come quello borbonico. Ogni battaglia avrebbe però mostrato evidenti incongruenze tra invasori e locali, sproporzionati in termini di personale e di armamenti. Eppure, ciononostante, le camicie rosse pervennero abbastanza rapidamente all’estremità orientale dell’isola, accingendosi a superare lo Stretto di Messina per puntare Napoli.
In più occasioni esse poterono essere fermate: a Calatafimi, o presso la stessa capitale insulare, ma spesso le iniziative coraggiose dei comandanti neoborbonici furono bloccate da un’eccessiva prudenza dei superiori o addirittura a seguito di episodi di tradimento che avrebbero contribuito a destabilizzare e demotivare le truppe locali e ad accrescere l’aura di invincibilità del Nizzardo.
Nell’isola siciliana, Garibaldi e i suoi fedelissimi – tra cui tale Nino Bixio – si macchiarono di crimini indicibili, sfruttando le armi della persuasione e la violenza, senza menzionare e approfondire quanto sarebbe poi successo nella parte continentale del Regno.
In questo articolo ci si è limitati a esporre quanto materialmente accaduto al principio di tutte le vicissitudini successive – il primo approdo di Garibaldi sull’isola – nonché quanto nascosto premurosamente dalla storiografia ufficiale per introdurre, nelle gloriose vicende d’Italia, una figura sordida, o quantomeno ambigua.
Nulla vieta ai lettori di approfondire maggiormente la questione – una questione spinosa, ma che nella sua complessità e con lo svelamento di tutti i suoi segreti permette di comprendere moltissimi perché del presente. Fiumi d’inchiostro potrebbero essere scritti sulla barbarie delle camicie rosse e dei piemontesi, sul brigantaggio e sulle spoliazioni, ma ciò è preferibile raccontarlo in un’altra storia.
- Sapere.it, Primato morale e civile degli Italiani ↩︎
- Massimo De Leonardis, La situazione politico-diplomatica internazionale dall’armistizio di Villafranca all’annessione del Regno delle Due Sicilie ↩︎
- Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume Secondo ↩︎
- Corriere della Sera, Perché la Gran Bretagna favorì la spedizione dei Mille ↩︎
- Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume Secondo ↩︎
- Francesco Pappalardo in «Alleanza Cattolica», La spedizione dei Mille e l’aggressione al regno delle Due Sicilie (nota n.21 al testo) ↩︎
- Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Volume Secondo ↩︎
- idem ↩︎