Sab. Ott 5th, 2024

Requiem per un detenuto ovvero La danza dei tulipani

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Un prato fiorito di tulipani ondeggia al vibrare delle note del vento d’estate. Cade un petalo, uno solo. Non se ne accorge nessuno, quasi non s’ode quel tonfo. E i tulipani continuano ad ondeggiare flemmatici, incuranti, come naufraghi al cospetto delle onde agitate di un mare in tempesta: qualcosa di più forte, di dirompente incombe e s’impone su di loro, e i tulipani non possono far altro che abbandonarvisi, acconsentire, subire, forse ostentare la loro alterigia affettando una postura ritta, ma poi di nuovo soccombere. Questo fanno i tulipani; e così li imitano gli uomini.

Ieri non un petalo di tulipano è caduto, ma il corpo d’un uomo. Uno qualunque, non si scomponga il lettore a chiedersi chi è, il suo nome oramai non ha più importanza, non ora. È morto suicida, da detenuto, da accusato.
Lo scandalo della morte compare come un’ombra malefica alla luce abbagliante del sangue e alla ruvida, ineluttabile compresenza del morto. È morto, s’è suicidato, c’è sangue… Bagliori di tenebra s’irradiano crudelmente per il circondario, e il brulichio della vita viene per un’attimo interrotto e preso per i piedi, trascinato rapidamente davanti al fatto compiuto. Un uomo è morto… Un uomo è morto, si vede; eppure quand’era vivo non lo vedeva nessuno… Che assurda assurdità la vita! Lo scandalo degli “oh” e degli “uh” cambia subito veste e si drappeggia di curiosità, di malizia e di sconfortante pettegolezzo. Che vano, inutile rumore è l’empito di preoccupazione che schizza dalle bocche dei passanti! Che odiosa ceramica è la faccia d’un indifferente che si preoccupa post mortem!

Era un detenuto, che importa. Era stato arrestato due volte, aveva fatto la galera, la comunità e gli arresti domiciliari; s’era abbandonato anche lui alle onde sovrumane della diseducazione di Stato, della repressione orfana della riabilitazione. Poi s’era fatto forza da solo, e s’era messo a studiare. Era arrivato al terzo anno di Giurisprudenza – strano ossimoro per un ex detenuto, per un reietto, per un ultimo: studiare a fondo la mano che lo ha punito, osservarne le pieghe più intime, vagheggiarne la fisionomia. Uno scandalo anche questo, se si vuole. Ma il vero scandalo, ad onor del vero, era di tutt’altra guisa: un condannato ambiva a fregiarsi un giorno dei panni del difensore, voleva fare un passo di lato e brandire il diritto per schermare tanti suoi io del futuro. Scandalo vero, oltraggio al pubblico stereotipo. Un reato vero e proprio, sebbene non sia punito da nessuna legge scritta. Un reato che ha pagato con la vita.

Il tremito frenetico, delirante d’un corpo che si prepara con consapevolezza ad esalare l’ultimo respiro deve essere oggetto di notevole attenzione per gli spettatori granguignoleschi. Dopo “chi è morto?”, la domanda che più frequentemente scivola giù dalla bocca di tutti è “come è morto?”. E ancor di più se il Tal dei Tali è un suicida: si desidera subito ottenere con gran dovizia un mucchio di particolari macabri, truci, ossessivi. Così se ne parla per qualche giorno, si affetta un po’ di pietà cristiana e si inzuppano entrambe le mani nell’acqua dell’ipocrisia, ultimo lavacro del sopravvissuto. Poi gli uomini ricominciano a danzare alla maniera dei tulipani, magari spiegando con fare saggio che volente o nolente la vita va avanti.

Per noi ieri non è caduto un petalo di tulipano, ma il corpo d’un martire. Allontanato, schernito, aggredito, violentato e martoriato da un potere che tracima al di là della classica cornice di Stato e trova casa negli atti d’ognuno di noi.
Un fiotto di sangue denso e vermiglio gocciola ancora dalle mani nostre. È il sangue d’un petalo di tulipano che non è riuscito a farsi uomo.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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