Gio. Nov 21st, 2024

Gaetano Salvemini, il meridionalismo riformista

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“Rassegna di meridionalismi” è una rubrica del mercoledì sera che ha il fine di riannodare la storia del meridionalismo, dalle origini sino ad oggi. In articolo ci occupiamo di Gaetano Salvemini, fautore di un meridionalismo riformista e grande intellettuale meridionale.

Come anticipato in precedenza, un cambio di passo nella percezione della questione meridionale fu fornito da Gaetano Salvemini, nato a Molfetta l’8 settembre 1873. Egli era un socialista dapprincipio molto radicale e non risparmiava critiche nei confronti dello Stato liberale. La sua convinzione era che il Sud stesse scontando il grave danno di una malagestione da parte della classe dirigente liberale: serviva allora un moto organico e popolare degli oppressi che si ponesse come alternativa alla gestione dell’epoca.
Le critiche non erano solo indirizzate ai liberali, bensì dardeggiavano anche contro il meridionalismo della prima ora. Salvemini rappresentò un punto di svolta anche per questo: egli disprezzò la trattazione della questione meridionale in senso paternalistico, battezzando un nuovo modo di concepire la condizione del Mezzogiorno (troverà compimento il suo pensiero nelle elaborazioni di Gramsci e Dorso).

Massimo Luigi Salvadori, in Lezioni di meridionalismo,  divide in tre fasi il pensiero meridionalista di Salvemini:

Possiamo parlare di tre fasi: la prima, in cui privilegiò il protagonismo delle masse lavoratrici del Sud, la quale, anche qui con mutamenti di impostazione tutt’altro che lievi, si concluse con la sua uscita nel 1911 dal Partito socialista; la seconda, che occupò il periodo dal 1911 al primo dopoguerra, quando, convertitosi alla teoria di Mosca, puntò sull’azione di minoranze politico-intellettuali animate da spirito illuministico; la terza, che va dal 1949 – anno del suo ritorno in Italia dopo gli anni dell’esilio – alla morte, durante la quale, come egli stesso ebbe a dire, mise molta acqua nel vino di un tempo, e si convertì alla tesi, che aveva con tanta intransigenza combattuto, che la speranza della rinascita del Mezzogiorno, poco potendosi contare sulle forze indigene, dipendeva dall’aiuto offerto da quelle progressiste e riformiste del Settentrione.

Durante i primi anni di impegno politico e intellettuale assunse, come già accennato sopra, delle posizioni visceralmente radicali. Parteggiò per la socializzazione delle terre e affermò la necessità di misconoscere anche la legittimità della piccola proprietà terriera. La soluzione era intravista nell’applicazione del socialismo all’Italia. Successivamente – intorno agli ultimi anni dell’Ottocento – ebbe modo di rimodulare le sue tesi, introducendovi un elemento di novità: il federalismo. Qui probabilmente la richiesta di una maggiore autonomia per il Mezzogiorno ospitava nel suo intimo fondamento la consapevolezza che il Nord potesse, in un certo qual modo, depredare le ricchezze meridionali; questa consapevolezza, volendo seriamente intravederla nel pensiero di Salvemini, benché nella sua più sottile ed intima manifestazione, era propria anche di un grande intellettuale di quegli anni: Francesco Saverio Nitti (si ricordino gli estratti suggeriti del saggio Nord e Sud, pubblicato appunto nel 1900).

Intendendo fare nostra la periodizzazione delineata da Salvadori, potremmo dire che Salvemini, al termine della prima fase del suo pensiero, ebbe alcuni ravvedimenti su taluni punti, anche per mezzo della influenza esercitata su di lui da Antonio De Viti De Marco, e rafforzò le sue convinzioni su talaltri. Al termine del 1911 egli emendò le tesi sulla socializzazione delle terre e sul contrasto anche alla piccola proprietà; intravide nella battaglia antiprotezionistica – di cui De Viti De Marco era un pugnace sostenitore – un obiettivo dirimente per le sorti del Sud; rafforzò la sua critica allo Stato liberale e alla politica repressiva degli interni; e, da ultimo, sostenne l’approvazione del suffragio universale.

Ma l’analisi della questione meridionale di Salvemini non può di certo essere ridotta a questi quattro punti; essi semmai potevano costituirne l’approdo programmatico. L’analisi invece ebbe come centro di attenzione il ruolo del sistema sociale del Mezzogiorno: esso era ancorato ai modelli feudali, benché vivesse piccole incursioni moderniste; e tale condizione non permetteva un adeguato sviluppo delle classi oppresse. Inoltre, la grande burocrazia di Stato imponeva un modello accentratore non salubre per una realtà come il Sud, lasciando immutati gli equilibri di forza sociale e cristallizzando un classismo fondato sul latifondo e sull’intervento dello Stato centrale.

Salvemini infatti sosteneva che i latifondisti del Mezzogiorno godessero del benestare della borghesia settentrionale, in una sorta di accordo tacito che – sarà evidente anche in Gramsci – favoriva lo sfruttamento delle classi subalterne di tutta la penisola, formate maggiormente da operai, braccianti e contadini. Tra i due opposti della società meridionale si stagliava una terza classe, formata da piccolo-borghesi privi della benché minima autonomia politica e intenzionati solamente ad ottenere prebende dallo Stato centrale. Latifondisti e piccolo-borghesi quindi operavano grazie alla protezione della borghesia settentrionale, onorando l’accordo con la fedeltà politica ai candidati governativi. Il quadro sociale disvelato da Salvemini trovava una sua plastica, pantanosa stabilità attraverso l’introduzione della tariffa doganale del 1887. Le classi dominanti di entrambe le parti della penisola così si proteggevano dalla concorrenza estera sigillando un accordo ai danni degli operai del Nord e dei contadini del Sud.

Il corollario di uno scenario di tal guisa è che la soluzione il Sud avrebbe dovuto ritrovarla in un accordo speculare di eguale estensione nazionale. Se i padroni del Nord e del Sud s’alleavano per danneggiare gli operai e i contadini, allora era necessario che questi due corpi – parte della stessa classe – si unissero, siglando un accordo di fattura analoga. L’accordo tra operai del Settentrione e contadini del Mezzogiorno ebbe il merito di influenzare in maniera determinante l’analisi di Antonio Gramsci sulla questione meridionale.

L’intellettuale pugliese affidava l’onere di dare imminente urgenza a questo obiettivo alla serafica conclusione del saggio La piccola borghesia intellettuale, comparso sul numero del 16 marzo 1911 de La Voce:

Il grande problema della presente vita pubblica italiana è di sapere se le organizzazioni proletarie dell’Italia settentrionale si renderanno si renderanno solidali con la politica giolittiano-radicale, se si renderanno anch’esse complici della delinquenza piccolo borghese meridionale, se accetteranno l’ufficio di aguzzine, mediante adeguata partecipazione agli utili, della classe lavoratrice meridionale.

Quanto al suffragio universale, è proprio intorno a questa proposta che si concretizzò l’uscita di Salvemini dal Partito socialista e l’inizio della «seconda fase» del suo pensiero. La lotta fu prima intestina, tra Salvemini e Turati, dal momento che questi non credeva che le masse contadine del Sud potessero esprimere un voto socialista (convinzione condivisa anche da Sonnino); poi divenne esogena, tra Salvemini e Giolitti. Ma, a sorpresa, fu proprio lo statista piemontese a permettere l’approvazione del suffragio universale, sbaragliando le posizioni dei socialisti e dei democratici. Gaetano Salvemini fu preso in contropiede, ma tutto sommato rimase intimamente soddisfatto della riforma. Stando così le cose, egli credette di avere a sua disposizione lo strumento necessario per gli obiettivi che aveva delineato negli anni precedenti. Abbandonò il Partito socialista e intraprese un’attività intellettuale e politica molto intensa.

Il 16 dicembre 1911 fonda la rivista settimanale L’Unità, a seguito di una scissione da La voce. La frattura con i vociani di Prezzolini si consumò durante la guerra italo-turca, a cui Salvemini opponeva un irriducibile rifiuto. Alessandro Leogrande descrisse, in un articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno e poi ripubblicato su minima&moralia, in maniera molto chiara le ragioni della frattura:

Perché siamo andati in Libia? (…) Gaetano Salvemini si pose questa domanda in un paese che si stava avviando verso il suo più colossale disastro coloniale sull’altra sponda del Mediterraneo. (…) “Sia il quando, sia il perché, sia il come della impresa libica non si spiegano, se non tenendo presenti la incultura, la leggerezza, la facile suggestionabilità, il fatuo pappagallismo delle classi dirigenti italiane,”, scriveva Salvemini. (…) In pochi ebbero la forza e il coraggio intellettuale di opporsi, e Salvemini fu sicuramente la voce più lucida tra gli oppositori dell’intervento bellico. Aveva cominciato a criticare le fondamenta dell’azione militare già su La Voce di Prezzolini. In seguito, distaccandosene per l’atteggiamento troppo tiepido della testata nei confronti del governo, fondò un proprio settimanale, L’Unità, che proprio a partire dalla questione libica avrebbe animato il dibattito politico italiano per tutti gli anni dieci del secolo scorso.

Alla base della fondazione del nuovo settimanale e, più in senso lato, dell’intenso impegno intellettuale e politico di Salvemini vi era l’oramai compiuta autodafé sul ruolo dei partiti di massa. La loro funzione gli appariva diafana e priva della lungimiranza necessaria a guidare le plebi oppresse del Mezzogiorno. Ora che lo strumento del suffragio universale si era fatto tangibile nella sua dimensione normativa, la percezione della guida politica si faceva ai suoi occhi sovrapponibile alla dottrina di Gaetano Mosca. Salvemini era convinto che la storia non fosse fatta  «né dalle moltitudini inerti, né dalle oligarchie paralitiche», ma dalle «minoranze consapevoli ed attive» in grado di trascinare le moltitudini «verso nuove condizioni di vita, anche contro la loro immediata volontà».

L’avvento della Grande Guerra e il suo catastrofico esito sono storia nota, così come lo è parimenti la posizione che assunse Gaetano Salvemini a riguardo. Volendo riannodare la seconda fase del suo pensiero alla prima, possiamo constatare che l’autodafé non fu proprio solo della funzione dei partiti di massa, ma abbracciò in pieno anche il ruolo dell’Italia in guerra. Divenne interventista, ripose cospicua fiducia nel ruolo mediatore della monarchia – lui che era un fervente repubblicano – e impegnò la sua penna nella difesa degli obiettivi bellici degli Alleati. Al termine del conflitto s’accorse che i nazionalisti erano stati pressoché interamente assorbiti dal movimento fascista emergente, e fu costretto ad ammettere a se stesso – possiamo saperlo grazie ad una pagina di diario – «di aver commesso un imperdonabile errore».

La fine della dittatura fascista e dell’esilio dell’intellettuale pugliese inaugurano la terza e ultima fase del suo pensiero. Fiaccato dalla storia, dalle vicissitudini personali e dalla frustrazione accumulata negli anni di esilio, Salvemini annacquò molte delle sue tesi di un tempo. Nella raccolta Scritti sulla questione meridionale è possibile arguire la grande disillusione con cui guarda alle sue prime tesi sul Mezzogiorno:

Non ho più – affermò – nella capacità politica dei meridionali quella baldanzosa fiducia che avevo quando i trent’anni erano ancora per me al di là da venire. […] Via via che la mia fiducia nelle forze indigene del Mezzogiorno si è andata attenuando, ho dovuto convincermi che l’aiuto dei settentrionali è la sola via che si possa battere. E quando c’è una sola via, quella è la migliore.

Il suffragio universale, ammise, era sì uno strumento prezioso nelle mani delle masse lavoratrici meridionali, ma era necessario che prima imparassero ad utilizzarlo. Questa tesi, non sarà di certo sfuggito al lettore, era stata per tempo propugnata da Filippo Turati negli anni delle lotte intestine al Partito socialista tra lui e Salvemini. Ma le palinodie non si arrestarono qui. Financo il federalismo fu oggetto di parziale abiura per l’intellettuale pugliese: un’autonomia completa avrebbe abbandonato le regioni meridionali al malaffare della piccola borghesia.
La sua esistenza si concluse amaramente così, spirando nelle braccia di un vegliardo socialismo democratico, gradualista e umanitario, nel quale ammise di riporre le sue ultime speranze.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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