Gio. Set 19th, 2024
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La giornata di studi organizzata in onore del pensiero di Franco Cassano il 23 aprile scorso presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro ha lasciato spazio a numerose e interessanti riflessioni attorno al pensiero cassaniano, nella consapevolezza che il miglior atteggiamento per tenere fede ai suoi insegnamenti non sta nella macchinosa e impassibile ripetizione delle sue riflessioni, bensì nell’approccio revisionistico e rinnovatore delle categorie di pensiero. Dopotutto si tratta di quella esatta dimensione libera e pensante che Cassano ha sempre desiderato per il suo Sud. Ecco di seguito alcune riflessioni intorno a diversi temi trattati durante il convegno: la cura dei luoghi e il rapporto tra gruppi dominanti e gruppi subalterni.

Quei bellissimi ed estasianti paesaggi meridiani sono stati ammodernati e adeguati alle esigenze di un turismo celere e consumista. E così, il paesaggio meridiano si riduce a questo: grandissimi hotel, villaggi turistici, negozi e sfilate sul lungomare, senza porsi il minimo interrogativo se quei paesaggi abbiano qualcos’altro da raccontarci oltre al misero e impoverito consumismo.
Resta fuori dalla scenografia la vecchia gente del luogo, quella che continua a vivere sulla propria pelle l’esperienza umana della subalternità, quella priva di voce (persino quando si tratta di dover decidere su come gestire il turismo del proprio territorio, senza svuotarlo delle proprie originarie fattezze), quella che ha  veramente una microstoria da narrare e, quando è pronta a far risuonare la propria voce, ecco che essa viene schiacciata dal disinteresse generale.

Sulla scorta del pensiero meridionalista di Giustino Fortunato, cui Domenico Birardi ha dedicato uno scritto brillante in questa rivista nella sezione dedicata alla “Rassegna di meridionalismi”, Franco Cassano guarda le condizioni ambientali e geografiche del meridione e, seppur nella consapevolezza dell’aridità e ostilità di questo territorio (in parte anche responsabile dell’arretratezza economica del Mezzogiorno), decide di non rinnegarle ma anzi di esaltarle nella parte in cui esse rendono questi luoghi unici e irripetibili.

Franco Cassano ritiene che l’unico modo per far sì che il Mezzogiorno abbandoni le vesti del subalterno non sta nell’ostinata corsa del meridione per raggiungere lo sviluppo industriale del settentrione, sebbene, quand’anche vi dovesse riuscire, quello sviluppo raggiunto sarà solo una copia imperfetta di quello rinvenibile al Nord. Per Cassano, al contrario, la strada da percorrere per rivendicare un’autonoma voce è quella di assecondare il territorio meridionale, inaugurando uno sviluppo sui generis del Mezzogiorno, in assenza di pretese concorrenziali e comparative, in assenza della necessità di stuprare i luoghi nel nome di uno sviluppo industriale che non appartiene alle caratteristiche del nostro territorio meridiano.

Guardare i luoghi significa averne cura, riguardo, ricostruire, attraverso la pietas, i beni pubblici, quei beni che appartengono a tutti e che sono insieme veicolo di identità, solidarietà e sviluppo. (Franco Cassano, Il pensiero meridiano).

Il pensiero di Franco Cassano è particolarmente ancorato al concetto di pietas/cura dei luoghi del Mezzogiorno, in quanto questo è senza dubbio il primo passo da compiere verso la conquista di un’autonoma voce del Sud, verso il superamento della posizione di un Meridione subalterno.

UNA VOCE SUBALTERNA TRADOTTA – Collocato agli ultimi posti della classifica dello sviluppo economico, la posizione del Mezzogiorno è assimilabile a quella dei gruppi subalterni gramsciani1 e a quella della donna indiana subalterna spiegata da Spivak2, filosofa statunitense e studiosa del postcolonialismo e della teoria di genere. Tutti e tre sono senza voce e, qualora dovessero cercare di abbozzare un discorso, i gruppi dominanti finirebbero per negare il discorso del subalterno. Persino un atto di resistenza resterebbe subalterno giacché, nella grammatica del potere, non ci sarebbe uno spazio per poterlo accogliere e comprendere.

Qualcuno potrebbe obiettare a questa lettura dei gruppi subalterni sostenendo che, in realtà, il Mezzogiorno e in generale molti gruppi subalterni godono ormai di una propria voce nelle sedi istituzionali del potere grazie ai rappresentanti, cioè a quei portavoce delle esigenze dei subalterni.
Ciò che viene trascurato, però, è che, innanzitutto, il rappresentante del gruppo subalterno dovrà necessariamente tradurre e riadattare il discorso del subalterno al linguaggio del gruppo dominante. Questo atto di traduzione del discorso subalterno già rivela la sussistenza di una condizione di insuperabile subordinazione del discorso del subalterno al linguaggio del gruppo dominante. Perché il primo deve adeguarsi al secondo e non può avvenire il contrario?

Il filosofo Rancière sostiene nel suo libro “La notte dei proletari” che il rappresentante è espressione della “doppia e irrimediabile esclusione di vivere da operai e di parlare da borghesi”. La traduzione del discorso subalterno per una sua più chiara comprensione all’interno del gruppo dominante snatura il primo, rendendolo non più espressione della voce del gruppo subalterno ma una sorta di rappresentazione inautentica nel nome della comprensione agli occhi del potere.
Inoltre, riportando la riflessione spivakiana, il subalterno non ha voce perché privo di autorità enunciativa all’interno della rappresentazione subalterna. Nel discorso del rappresentante, egli non è legittimato a ingerirsi per nominarsi. In questo senso, non vi è neppure la rappresentanza del subalterno e si scade in un vacuo quanto confuso discorso del rappresentante che parla del subalterno senza parlarne!

Così come la donna indiana spivakiana subisce la duplice forma di subalternità (quella di genere in quanto donna e quella del dominio britannico in quanto soggetto coloniale), ugualmente il Mezzogiorno si imbatte nel disprezzo dei suoi propri abitanti che rivolgono lo sguardo allo sviluppo economico e alla logica produttivistica del settentrione e, allo stesso tempo, si fa attraversare dal processo di deculturazione e da una grammatica che gli è estranea: la grammatica del potere economico.
Non c’è altro modo di parlare del Meridione, se non in termini di stanziamento di risorse economiche per farlo correre sulla via del progresso.

LA STORIA DEI SUBALTERNI – Ogni avvenimento collettivo meridionale viene isolato e analizzato dall’occhio del gruppo dominante che non solo non riesce a comprenderlo ma fa di più, nel senso che la sua analisi si spinge fino al punto di rendere una spiegazione patologica e grottesca di quell’avvenimento. Ogni tipo di ricerca storica e sociale, volta all’emersione delle ragioni del fenomeno collettivo, resta preclusa.

Il gruppo subalterno cerca di tracciare una propria storia sistematica senza riuscirci. La storia è scritta, invece, dal gruppo dominante ed è concepita come strumento per perpetuare e legittimare il proprio potere. All’interno di essa, i gruppi subalterni fanno fatica a insinuarsi e, laddove vi riescono, lo fanno con piccole e discontinue parentesi storiche e patologiche. La loro storia è disgregata ed episodica. Quand’anche essi siano riusciti ad assumere delle iniziative tradottesi poi in leggi, queste ultime sono sempre rimaste delle marginali leggi di necessità funzionali solo alle esigenze del gruppo subalterno stesso. Come sostiene Gramsci, le loro leggi sono limitate politicamente, non sono leggi di necessità storica, non sono in grado di influenzare la classe dominante.

La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la subordinazione. (Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere).

IL RAPPORTO TRA CULTURA DOMINANTE E CULTURA SUBALTERNA – Cassano sostiene che il rapporto tra cultura egemone e cultura minoritaria è ineguale. Il normale processo di contaminazione che scaturisce dall’incontro tra due culture anziché essere reciproco (e, si badi che la reciprocità presuppone l’esistenza di due culture aventi la medesima intensità e forza di influenza) avviene, in realtà, a senso unico: l’unica a essere contaminata fino a ridursi a una vecchia e inattuale reminiscenza è la cultura subalterna.

Cassano analizza due modi per resistere alla progressiva invasione (o settentrionalizzazione) della cultura contabile del Nord. L’uno è dato dall’adesione totale alla cultura dominante, anche a costo di sacrificare i tratti tradizionali e indefettibili della cultura subalterna. Questo approccio è, allo stato attuale, l’unico modo affinché la cultura subalterna possa sopravvivere ed entrare nella sfera di cristallo del potere. A quale prezzo, però? Occorrerà rinunciare all’identità di quella cultura minoritaria.
L’altra forma di resistenza, anch’essa non condivisibile, è data dall’integralismo, ossia da quell’atteggiamento teso a rendere impermeabile la cultura minoritaria a ogni influenza proveniente dalla cultura dominante, per arrivare poi all’estremo della derisione della modernità.

La reazione di segno opposto è quella che Toynbee chiama Zelotismo e che noi (con minore fantasia) definiremo integralismo, una reazione tesa a salvaguardare l’identità della cultura subalterna, rivendicandone il valore e sottraendola a tale condizione di inferiorità attraverso la riproposizione settaria dell’attualità della tradizione e la demonizzazione della cultura dominante. (Franco Cassano, Il pensiero meridiano).

I gruppi subalterni si muovono nei limiti delle loro possibilità per poter preservare la propria cultura. Dunque, ben lungi dal porre sotto giudizio severo le modalità di autoconservazione di una cultura subalterna, se esiste un modo per salvaguardare i subalterni del nostro Mezzogiorno, questo va ricercato nella cultura dominante che è espressione di quel gruppo egemone, l’unico capace di scrivere la storia.

L’attuale cultura dominante costituisce un altro volto nuovo dell’integralismo: non l’integralismo del mondo islamico estremamente conservatore e poco incline all’incontro tra culture; quello dei Nord è un integralismo convinto di promuovere la migliore cultura possibile, capace di innestarsi in ogni luogo e di poter legittimamente schiacciare le culture subalterne. Il compito di cui bisognerebbe farsi carico è quello di far comprendere che lo slogan culturale del settentrione “PIL, consumismo, sviluppo industriale e progresso tecno-scientifico” non è per tutti la migliore forma di cultura possibile. Occorre che si faccia un passo indietro, che si comprenda che la cultura meridiana funziona secondo schemi valoriali e principi disincagliati dall’accezione di progresso e di velocità, che la cultura dominante dei Nord avvii un “processo di decostruzione del proprio integralismo culturale”.

Il nostro integralismo non assassina: rende obsoleti, licenzia, mette fuori mercato. Esso ha altri templi, altri breviari, altre pene, altri inferni. Chi sei se non possiedi privatamente, se non hai qualcosa di soltanto tuo su cui appoggiare e rendere concreta la tua libertà? (Franco Cassano, Il pensiero meridiano).


  1. vd. Antonio Gramsci, Quaderno 25 “Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni)”, in Quaderni dal carcere (1932-1935). ↩︎
  2. vd. Gayatri Chakravorty Spivak, “Can the subaltern speak?”. ↩︎

di Maria Lucia Tocci

Studiosa del diritto. Attivista per la pace e per i diritti civili.

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