IL DECLINO DELLE IDEOLOGIE E LA CRISI DELLA PARTECIPAZIONE DEMOCRATICA – I dati sulle affluenze elettorali, in gravissimo calo da decenni, descrivono inequivocabilmente lo stato della nostra democrazia come di una democrazia stanca. Un corpo elettorale disinteressato, apatico, sempre più lontano dagli slanci ideali di una competizione elettorale che era competizione dei valori sociali e che non è più altro che rappresentazione plastica di conflitti grigi e indistinguibili, frutto di ambizioni personali e di cattiva selezione di interessi.
Non ultime in questo lungo processo le cause storiche della perdita delle identità politiche, delle grandi ideologie del novecento che, fra alti e bassi, tra progressi e miserie, tenevano insieme le masse. Le lanciavano verso forme di presenza collettiva, le univano e le dividevano negli appassionati dibattiti policentrici che infiammavano le sezioni dei grandi partiti. E da lì a catena fino alle massime assise istituzionali territoriali e nazionali.
La consapevolezza politica era più generosamente spalmata fra la popolazione: in possesso dei più, perlomeno in virtù di un inquadramento sociale più rigido, fissato negli schemi a compartimenti stagni dello status economico o dei grandi riti collettivi ai quali si era soliti partecipare. Tutta materia pian piano defluita nella felicissima (per appropriatezza e non per contenuto) definizione baumiana della modernità liquida. Una condizione di fatto che ha demolito ogni identità sociale, ogni forma di interpretazione collettiva del sé e ha gettato gli individui in un moto casuale di particelle in uno spazio indefinito. Nemmeno più il radicamento territoriale, la stabilità affettiva, la professione, l’attivismo civile, a costituire elementi della costruzione di senso della coscienza individuale.
Nella crisi delle ideologie prima e delle grandi organizzazioni di massa poi, finisce un mondo che era iniziato con la Prima Guerra mondiale. Il grande dramma universale che impone al cittadino il suo desiderio di partecipazione come riconoscimento del suo sforzo bellico, la società di massa che si affaccia alla storia rivendicando un nuovo ruolo pubblico al prezzo del suo sangue versato.
Non ultima ragione: la geopolitica. La caduta dei blocchi, il disfacimento del sistema binario tra mondi diversi impone alla politica di essere declinazione dell’unico mondo sopravvissuto alle prove del tempo. Ogni altro modello semplicemente risulta sconfitto dalla storia. La fine della storia, appunto, di Fukuyama rende le opzioni del paniere politico sfumature grigie che hanno anche perso gli estremi del bianco e del nero.
Nella nostra Italia, nel tentativo di restituire agli elettori possibilità di scelta, di superare l’unipolarismo storico del sistema di potere repubblicano, e al contempo di superare la crisi profonda del sistema della rappresentanza politica, gli anni 90 hanno visto il nascere dei sistemi elettorali bipolari su tutti i livelli elettorali. Felice quanto temporanea illusione. In realtà l’indistinto diviene regola della narrazione politica, la cooptazione pratica diffusa.
I cittadini smettono di capire per chi o cosa votano, al punto che semplicemente smettono di farlo.
LA GRAMMATICA DELLA BUROCRAZIA E LA SUA DIFFUSIONE – Le riflessioni politiche, filosofiche, sociologiche a lungo si sono spese per comprendere i meccanismi attraverso i quali provare a porre un argine a questo rischio sistemico.
Apparati di governo ispirati a principi democratici, che perdono il loro elemento legittimante fondamentale, ovvero il consenso elettorale, rischiano di implodere su se stessi.
La perdita della costruzione di consenso intorno alle politiche pubbliche le disarticola dalle esigenze reali, allontanando gli organi di amministrazione del territorio dalle reali aspirazioni di chi vi abita, ne depotenzia le attività perché finiscono inevitabilmente per mancare di quegli attivatori sociali che fungono da moltiplicatori di efficacia di norme e progetti posti in essere.
Un sistema del genere non può produrre politiche pubbliche efficaci, commisurate alle sfide locali che bussano alle porte degli edifici comunali, i cui addetti spesso reagiscono spaventati all’idea dell’interlocuzione con chi è alieno ai propri linguaggi e alle proprie grammatiche stringenti. E laddove non vi è comprensione è facile cadere nella trappola dell’equivoco, quel gioco di inganni che produce confusione e che è nemico della pratica del dialogo risolutivo del conflitto, o di quelle interazioni che l’incomprensione stessa rende tali.
E quindi è proprio nel recupero dei linguaggi che si può ricostruire una sinergia proficua tra amministratori e amministrati, tra uffici comunali e cittadini. Il processo di avvicinamento reciproco laddove i cittadini scoprono che, per rendere vive le proprie aspirazioni, possono beneficiare del sapere tecnico burocratico dei titolari degli uffici, e di contro questi, possono rinfrancarsi della naturale acquisizione del linguaggio comune che i cittadini ricavano da questa esperienza di compartecipazione.
IL RUOLO DELLA POLITICA – La domanda che sorge spontanea nel percorrere le cause della crisi della partecipazione democratica, e la prima soluzione, ravvisata nell’accesso dei cittadini alla grammatica della burocrazia, si configura nel quesito, esibito con perplessità attonita: e la politica?
La politica, o quantomeno quella che diremmo organizzata appare esclusa da questo processo, derubricata a forza ostile e non necessaria, colpevole, magari, della situazione circostanziale. Ingabbiata in essa per la logica del consenso, sempre più esiguo, che lei stessa ha sacrificato abdicando al suo ruolo interpretativo ed attuativo della società.
Probabilmente tale interpretazione è riduttiva e fallace. Alla politica piuttosto compete di trovare i nuovi strumenti di coinvolgimento della cittadinanza nelle decisioni pubbliche, sempre più complesse, che è chiamata a prendere. In un mondo che corre veloce, e moltiplica i fattori di articolazione, è profondamente immaturo pensare ad una politica che guida dall’alto, a volo d’uccello, i destini delle comunità. Abbaglio che ebbe grande diffusione nell’America di inizio Novecento che vide in quella particolare forma di progressismo la migliore declinazione del pensiero illuminista. Un corpo di tecnici a costituire una élite capace di governare al meglio secondo sapere, appunto, tecnico, e senza fare troppo i conti con le insoddisfazioni popolari manifeste. Come se può esserci buona organizzazione sociale senza il coinvolgimento di quegli stessi attori che ne animano i complessi meccanismi di funzionamento quotidiano.
La nuova leadership, di cui si ravvisa la maturazione, capace finalmente di fare i conti con la storia e con la complessità della società contemporanea, non sottrae alla comunità i suoi spazi di dibattito, non la tratta come l’infante a cui bisogna provvedere in tutto e per tutto, somministrando al bisogno i mezzi di sussistenza. Piuttosto la istruisce a darsi da sé le soluzioni, a costruire sinergie utili fra amministratori ed amministrati, facendo tesoro delle conoscenze situazionali, in possesso di colui che vive a pieno una certa condizione, in un certo luogo, nella sua quotidianità. Capace, quindi, di conoscere a pieno gli ingranaggi del proprio habitat urbano, e che, con le giuste leve, pronta a ripensare da sé, in ottica più funzionale, i suoi spazi di vita.
In questo, l’attivazione di nuovi strumenti posti nelle mani dei cittadini a partire dai livelli territoriali più di prossimità, può essere il nuovo slancio per ricostruire dalle basi i processi che conducono gli individui ad organizzarsi, ad esprimere consapevolmente, con capacità di studio ed approfondimento dei problemi, soluzioni utili alla politica. Rigenerative per la stessa.
Una politica, ormai, lanciata al timone di una nave nella sua piena corsa verso l’orizzonte, piuttosto che arrancante alla deriva, preda di un equipaggio demotivato che non risponde alle necessità di manovra causate dai flutti marini.