Il raggiungimento della piena uguaglianza di genere figura tra i principali obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU. Parliamo dell’obiettivo 5: “Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.
Ma da questo punto di vista la nostra Italia, che apparentemente risulta essere tra i paesi più sviluppati, è abbastanza arretrata. Basti pensare che in ambito lavorativo le donne disoccupate o che svolgono lavori precari sono più numerose degli uomini, per non parlare del piccolo numero che occupa posizioni dirigenziali. Non è un mistero che nel nostro paese le donne risultano essere ancora discriminate in tutti gli ambiti e questo rende palese, nel caso ancora ce ne fosse bisogno, che il problema della discriminazione femminile in ambito lavorativo parta in realtà da una cultura di fondo errata che ancora oggi subordina la donna all’uomo, quasi dimenticando quale ruolo fondamentale abbia avuto nel corso della nostra storia.
Un articolo davvero interessante porta la firma di Roberta Nunin, docente ordinaria di diritto del lavoro dell’Università di Trieste, articolo nel quale la Nunin non solo analizza in maniera precisa i dati riguardanti il rapporto donne-lavoro, ma ripercorre altrettanto nel dettaglio l’excursus storico del ruolo femminile nella storia italiana (1).
LA DONNA NEL VENTENNIO FASCISTA – L’autrice parte dall’art. 37 della Costituzione che recita nella sua prima parte: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore» e spiega come tale articolo abbia voluto in qualche modo porre rimedio e ribaltare la visione che il regime fascista aveva della donna in ambito lavorativo; più volte, durante il ventennio, il regime era intervenuto sotto il profilo normativo per poter raggiungere i suoi obiettivi. Primo su tutti quello demografico: la donna era vista essenzialmente come strumento riproduttore di «figli per la patria», motivo per cui era necessario riportarla in seno alla famiglia, soprattutto se aveva ambizioni diverse da quella di essere semplicemente genitrice.
In “Politiche della famiglia” (1936) di Ferdinando Loffredo si legge:
Avendo l’esperienza dimostrato che l’apporto dato dalla donna emancipata allo sviluppo della civiltà è negativo nel campo della scienza e delle arti e anzi costituisce il più certo pericolo di distruzione per tutto quanto la civiltà bianca ha finora prodotto […], la donna deve tornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo, padre o marito; sudditanza, e quindi inferiorità spirituale, culturale ed economica.
E questo per «sostenere la necessità dell’abolizione dell’istruzione superiore e universitaria “mista”, e la creazione per la donna di un “ghetto” scolastico che la preparasse esclusivamente ad adempiere alle funzioni domestiche e materne; una estensione generalizzata cioè sia della linea pedagogica codificata dalla “Riforma Gentile” del 1923, con cui si ebbe la creazione dei Licei femminili aventi “per fine di impartire un complemento di cultura generale alle giovinette che non aspirano né agli studi superiori né al conseguimento di un diploma professionale”, sia dei provvedimenti legislativi restrittivi nei confronti della frequenza universitaria e dell’esercizio di numerose professioni da parte delle donne» (2).
LA DONNA COME SPOSA E MADRE – La donna, dunque, doveva essere semplicemente “sposa e madre”, principio che coincideva con quelli che erano i dettami cattolici dell’epoca, quasi ad imporre una femminilità che, per essere accettata socialmente, era costretta a negare una parte di sé e ad adeguarsi all’unico modello considerato compatibile con la natura femminile: quello del ruolo riproduttivo-materno.
E nonostante la storia avesse dimostrato ampiamente quanto le donne si erano fatte valere durante la grande guerra, sostituendo egregiamente nelle fabbriche mariti, padri e fratelli impegnati al fronte, senza dimenticare i lavori all’interno delle proprie case, nel ventennio ci si adoperò affinché le donne fossero relegate nelle case. Si arrivò a licenziarle dai posti di lavoro al fine di contenere la disoccupazione maschile (soprattutto dopo la crisi del 1929), vietando oltremodo tutte le occupazioni che potevano essere svolte dagli uomini. Le limitazioni furono anche in ambito industriale, amministrativo e soprattutto scolastico: le donne furono escluse anche dall’insegnamento di materie importanti come storia e filosofia, italiano, latino e greco perché non avevano il prerequisito indispensabile di una “visione virile della vita”. Ecco come appare evidente l’intento celato, ma non troppo, di relegare le donne tra le mura domestiche, intento perseguito anche attraverso la normativa (3).
LA DONNA E LA SUA EMANCIPAZIONE – Tutti questi limiti furono poi tolti solo alle soglie del secondo conflitto mondiale, dal momento che ci si rese conto che le donne avrebbero dovuto, ancora una volta, necessariamente sostituire i “loro uomini” impegnati nello sforzo bellico. Non solo. Il ruolo delle partigiane durante la resistenza, la conquista del diritto al voto del febbraio del 1945 ed esercitato il 2 giugno 1946, fino alla partecipazione dei 21 donne all’Assemblea della Costituente, rappresentano le prime tappe di quel percorso di emancipazione che non si è ancora concluso. Restano memorabili le parole di una di quelle 21 “madri costituenti”, la più giovane tra loro, Teresa Mattei, che in una delle sedute della Costituente osservò: «Nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile».
OGGI – La svolta, dichiara sempre Roberta Nunin, è rappresentata sempre dall’art. 37 della nostra amata Costituzione, che afferma la garanzia «di pari diritti e retribuzioni per le lavoratrici». Ma il percorso della legislazione è stato davvero lento: dobbiamo arrivare agli anni ‘60 con le formazioni politiche di centro sinistra che iniziarono a prendere seri provvedimenti normativi nello sviluppo per la tutela antidiscriminatoria per le lavoratrici (4). Altre tappe fondamentali a livello legislativo le troviamo negli anni ’70 con la tutela delle madri lavoratrici, attuazione della parità in tutti i diversi passaggi del lavoro (dai colloqui alla formazione e alla carriera).
Ma ancora oggi le disparità permangono nella nostra società tanto da rendere necessari altri interventi dei nostri legislatori. Carmela Garofalo, altra docente di diritto del lavoro presso l’università di Udine, ma anche di Bari, sua città natale, in un suo articolo spiega:
La lotta alla diseguaglianza di genere in ambito lavorativo richiede un massiccio intervento sulle molteplici dimensioni della discriminazione, non solo repressivo, ma che incentivi le imprese a realizzare e garantire la parità di genere sia nel momento genetico del rapporto di lavoro sia in quello funzionale. In questa direzione si colloca la recente modifica del d.lgs. n. 198/2006 (cd. Codice delle Pari Opportunità), ad opera della legge n. 162/2021 che è intervenuta da un lato per raggiungere l’obiettivo fissato dall’Agenda ONU 2030 di adottare e consolidare politiche e provvedimenti legislativi che promuovano la parità di genere; dall’altro lato per dare attuazione (in parte) alle riforme riconducibili alla prima componente della quinta Missione (“M5C1” – «Politiche per il lavoro») del PNRR tra cui quella di realizzare, in coerenza con le politiche europee (Gender Equality Strategy 2020-2025 ), una Strategia nazionale per garantire la parità di genere, usufruendo delle risorse finanziarie stanziate dal NGEU (5)(6)
I dati che il Global Gender Gap Index, introdotto dal Forum economico mondiale nel 2006,fornisce dando una fotografia sulla condizione femminile in ogni paese, non sono assolutamente incoraggianti. Nel 2022 l’Italia occupava il 63esino posto su 146 paesi per poi precipitare l’anno successivo al 79esimo e al 30esimo sui 35 paesi europei. Davvero sconvolgente! Basti pensare che oggi quasi una donna su due non ha un lavoro esterno alla famiglia e questo dato ci rende lontanissimi dall’obbiettivo di raggiungere il 60% di occupazione femminile che l’Unione Europea aveva posto da conquistare entro il 2010! Per non parlare delle continue discriminazioni che ancora avvengono in sede di colloqui, di retribuzioni, di prospettive pensionistiche.
Vero è che alcuni passi in avanti sono stati fatti, grazie soprattutto alle battaglie di molti movimenti femministi: oggi esistono incentivi per i datori di lavoro che assumono personale femminile e si è cercato di potenziare i servizi per i bambini e per gli anziani, la cui responsabilità ricade ancora in gran parte sulle donne, costrette più frequentemente a rinunciare al lavoro e alla carriera per dedicarsi ai bisogni della propria famiglia. Ma il cammino è tuttavia lontano dal considerarsi concluso.
CAMBIAMENTO E PRSPETTIVE – Occorre ancora un cambio di passo: in ambito dirigenziale le donne sono ancora troppo poco presenti, in particolar modo in quei settori emergenti come la transizione energetica e/o digitale, come se ci fosse un’incapacità nel valorizzare le competenze femminili. Da qualche anno ormai alcune università, tra cui spicca quella di Urbino con a capo il prof. Alessandro Bogliolo, hanno iniziato una campagna di promozione di una maggiore presenza femminile nei percorsi di studio STEM. Ma questo ovviamente non è sufficiente. È necessario superare, soprattutto a livello culturale, tutti quegli stereotipi di genere ancora presenti e che condizionano senza ombra di dubbio le prospettive di carriera delle donne. Il cambio di rotta, per essere culturale, deve partire innanzi tutto dalle singole famiglie dove i doveri e le responsabilità siano equamente distribuiti tra i singoli membri. Per poi arrivare allo Stato che dovrebbe farsi carico di alcuni servizi a favore delle famiglie e soprattutto delle donne lavoratrici, come ad esempio la creazione di asili nido all’interno o nell’immediato vicinato del posto di lavoro, doposcuola, centri estivi, servizi di cura per anziani, oneri che ancora non riesce ad “accollarsi” e che garantirebbe un “welfare” largamente più efficace e davvero supportante la famiglia. Al momento solo grandi aziende private, pochissime in verità sul territorio nazionale, hanno creato questo tipo di servizi a favore dei genitori lavoratori (sarebbe interessante fare un’indagine per conoscere quali e quante aziende). Riguardo alla scuola sarà fondamentale continuare sul percorso intrapreso, vale a dire nel rendere consapevoli le bambine e le ragazze dell’importanza dell’autonomia lavorativa e della lotta per il diritto di una retribuzione paritaria a quella degli uomini, al fine di evitare una dipendenza economica dall’universo maschile.
La questione del lavoro femminile resta dunque ancora aperta e non può prescindere da una maggiore consapevolezza delle stesse, che le proietti verso un futuro realmente autonomo. Sarebbe utile un “patto generazionale” per arrivare alla parità di genere prima del 2090, data indicata da alcune indagini. Sicuramente è auspicabile una riflessione delle nuove generazioni (ragazzi e ragazze insieme) che porti quanto prima alla decostruzione degli stereotipi e, quindi, alla conquista della parità di genere.
Ma davvero ne saremo/saranno capaci?