Manca poco alle 20.00, e da alcuni minuti ho parcheggiato la macchina in un viottolo sonnecchiante che scivola su una curva a gomito custodita da una schiera di case in stile moderno. Il clangore dei giorni di festa rilascia la sua eco spenta, mentre le finestre che si affacciano sulla strada mostrano la sagoma cinerea del buio delle camere. L’appuntamento con Vincenzo, in ossequio alla tradizione meridionale, non ha un orario meticoloso, rigido: è «verso le otto di sera», dove il «verso» è lì per officiare un soventissimo rito di sacra moderazione nell’impegno, una quieta sregolatezza di misura nello spazio e nel tempo che schernisce la programmazione d’agenda e disprezza la puntualità serotina.
Dopo poco Agostino fa capolino da una porta poco lontana e mi fa segno di avvicinarmi.
Vincenzo Talò mi accoglie in un garage rettangolare non più grande di ottanta metri quadri e dal soffitto moderatamente alto. Subito dopo l’ingresso, quasi a sbarrare la strada a visitatori inopportuni, mi si para davanti un mastodontico cavallo in legno (un collage di fasci di rami, in realtà) alto più o meno quattro metri. La postura è marmorea e incisiva, il tratto di una precisione maniacale e lo sguardo è vuoto – mancano ancora gli occhi –; ciononostante, il muso spigoloso e la fronte spavalda puntano dritte verso una ruvida ostinazione cavalleresca. Tre mesi di lavoro, notte e giorno, sorretti dal candore di un devoto che non percepisce mai il «sacrificio per il santo» come una macchinale sacralizzazione della sofferenza, bensì come il dovere intimo, personale di ricordare a sé l’importanza della sua stessa fede e di prender parte ad un rito collettivo, identitario.
Vincenzo è inerpicato su una scala flebile e usurata, e immerge il suo sorriso ironico in un ammasso di legna legata. Appena entro mi sorride e proferisce con scherno bonario: «Questo è il giornalista? Mi vuoi riprendere sulla scala?».
Si risolve a scendere e mi conduce verso la hall of fame della sua bottega. Infiliamo un corridoio di anticamera in cui campeggia un tavolo adagiato al muro, delle sedie e una miriade di ramoscelli d’ulivo scartati durante la costruzione. Il corridoio era dapprincipio previsto per collegare l’atrio del garage con una stanza più piccola, anch’essa occupata da un tavolo, in cui oggi è esposto uno dei quadri che ha dipinto molti anni fa – delle donne sedute che sorseggiano una bevanda dipinte con colori sgargianti e con tratto impressionista –, ma lui ne ha ricavato una terza stanza e l’ha scelta per l’intervista. Sornione mi mostra la parete tappezzata di quadri e onorificenze che la stampa e le istituzioni di San Marzano gli hanno riservato (la sua hall of fame). Sono più di una decina e le scritte che emergono riflettono luminose l’orgoglio dell’artista; è tutto un pullulare di «Grazie a Vincenzo Talò» e di «in onore di Ustinu du’ munnu» (Agostino del mondo: il soprannome attribuito ad un suo avo).
Si concede qualche secondo per guardarle di nuovo e dopo un sospiro afferma: «Queste fotografie sono importanti, tutte le fotografie lo sono… perché ogni volta che entro posso guardarle e sentirmi come se fossi ancora lì». «Guarda questa,» continua a dire indicando una foto che lo ritrae con le redini in mano «qui era l’anno scorso, e avevo litigato con mio padre perché voleva che mi sedessi per dirigere il cavallo.»
«Vincenzo, ma il cavallo è di legno» gli rispondo con un sorriso indulgente.
«E dillo a mio padre! Io mi sentivo in colpa a vedere gli altri spingere il cavallo mentre ero seduto. Infatti dissi a mio padre: “Ma come deve sembrare?”. E allora lui mi disse: “Vincè, tu ti devi sedere, punto e basta. Senza di te il cavallo va allo sbaraglio.»
Il paradosso della animalizzazione di quella mastodontica struttura in legno dalle sembianze equine scatena in tutti i presenti un certo entusiastico umorismo, perciò decido di non controbattere e lascio cadere l’aneddoto nelle risate di sottofondo.
«Vincenzo, è tutto pronto. Possiamo cominciare?»
Vincenzo abbozza un po’ d’imbarazzo, cercando di celarlo dietro un eloquio ironico e familiare. Prende una sedia e la posiziona strategicamente davanti alla hall of fame, abbozza un altro sorriso e poi dice: «Sì, sono pronto; ma se rido taglia, eh!»
***
Perché festeggiate San Giuseppe in questo modo?
Io personalmente lo faccio perché sono un devoto, e faccio un cavallo tutto in legno perché mio padre non può più avere dei cavalli veri. Lui li ha sempre avuti, aveva proprio una passione. Adesso, dato che lui è ormai grande e non può più averne, ne costruisco uno in legno. Quello di quest’anno è alto quasi quattro metri e lungo sei metri.
Come fai a costruirlo?
Costruisco una struttura in ferro, che rappresenta la base, e poi inizio a riempirla di fascine (i rami, ndr) fino a quando non assume la forma che avevo disegnato. Io la chiamo opera, ma non so se possa definirsi tale.
Una volta che hai finito il cavallo, cosa succede? Come inizia la festa?
Tutti gli altri partono dalle loro basi di partenza, cioè dalle loro campagne, e compiono un percorso di circa due o tre chilometri fino al luogo del falò. Noi dovremo trainarlo a mano, nonostante abbia delle ruote; per questo sarà una grande fatica, ma è tutto un sacrificio dedicato a San Giuseppe. Si attraversano i vicoli e si cammina tutti insieme verso il luogo in cui ci sarà il grande fuoco.
Ci sono però delle differenze rispetto ai falò degli altri paesi.
Esattamente. Mentre negli altri falò in Italia, come a Novoli, ad esempio, la legna si accatasta nel corso dei mesi e il giorno previsto si appicca il fuoco, nel nostro caso l’ammasso di legna si costruisce il giorno stesso. È un procedimento collettivo a cui partecipa tutto il paese e che si conclude la sera.
Si sa che ogni tradizione subisce delle metamorfosi a seguito della contaminazione, cambiando costumi e metodi di festeggiamento. Anche la festa di San Giuseppe a San Marzano è cambiata nel corso del tempo?
La festa è sempre la stessa, forse sono io l’unico che ha cambiato un po’ le tradizioni. Soprattutto perché di solito sono gli animali a trainare la legna fino al falò, mentre nel mio caso siamo noi a trainare il cavallo con tutta la legna.
Come è nato il desiderio di costruire un cavallo in legno da sostituire ad un cavallo in carne e ossa?
A seguito di un intervento ho dovuto vivere un periodo di isolamento di dodici giorni nel mio garage. Sono sincero, non sapevo cosa fare e ho provato a costruire con i rami della vite un piccolo cavallo in legno. Non immaginavo di riuscirci, dato che era più un passatempo per me, ma alla fine è venuto fuori davvero un cavallo. L’ho chiamato Uvetta, dato che era stato fatto con i rami della vigna, mentre questo l’ho chiamato Gigino, in onore di mio cognato Luigi, venuto a mancare alcune settimane fa.
Una creazione casuale, quindi.
Sì, l’ho finito il primo marzo e l’ho dedicato a San Giuseppe.
Ma dove finiscono questi bestioni?
«Come vedi lo spazio è poco, anche se vorrei tanto tenerli con me. Sono stato costretto a venderli ad un parco divertimenti didattico, ma sarei stato felice di tenerli nel mio paese, anche perché San Marzano è il paese dei cavalli.»
Hai già pensato ad un posto, qui a San Marzano, dove potrebbe essere esposto?
Vorrei donarlo al Santuario, ma credo che ci sia una serie di procedimenti burocratici da seguire. Poi servirebbero delle telecamere e dei sistemi per sorvegliare l’esposizione. È un mio desiderio: vorrei che rimanesse al mio paese.
Possiamo proporlo.
Magari, anche se credo che sarà difficile che avvenga.
Passiamo all’aspetto culturale della tradizione. Secondo te, la tradizione è bene che si apra alle contaminazioni da parte della cultura contemporanea, oppure è opportuno che rimanga tale e quale?
Detto da me può sembrare ironico, ma io desidero che rimanga tale e quale. Il mio cavallo rappresenta un elemento di modernità, perché è fatto in legno e perché lo trainano gli uomini, ma alla fine noi non ci spostiamo molto dalle tradizioni di prima. Il percorso è lo stesso e il rito non cambia. La tradizione non deve cambiare.
Credi che ci sia un rischio di sradicamento della tradizione?
Non credo che ci sia un rischio imminente. Devi venire a vederla per capire: la festa di San Giuseppe è nel cuore di tutti i sanmarzanesi… tutti si alzano la mattina sapendo che è il giorno di San Giuseppe, e ognuno di loro partecipa alla festa dando un piccolo contributo.
Ogni artista, si dice, desidera avere qualcuno a cui insegnare la propria arte. Hai degli allievi o qualcuno che continuerà a farlo dopo di te?
Per adesso sono il solo a farlo, io e mio padre in realtà. Infatti, questo è più il suo cavallo che il mio: tutti i giorni, nessuno escluso, è qui ad aiutarmi e a trovare la legna necessaria. Vorrei che i ragazzi fossero incoraggiati a continuare questa tradizione e che imparassero a costruire cavalli simili a questo.
***
Spengo la telecamera e un sorriso di soddisfazione si dipinge sul viso di Vincenzo. Ora può finalmente tornare a lavorare. Intanto attorno a noi si è formata una piccola cerchia di persone, formata dalla famiglia di Vincenzo. C’è suo figlio Agostino, che ci ha accompagnati per tutta l’intervista osservando compiaciuto la genuina loquacità del padre davanti alla telecamera; poi c’è Salvatore, fratello e braccio destro dell’artista, che grande parte ha avuto nella costruzione del cavallo; e suo cognato Salvatore, un uomo tarchiato e dalla voce baritonale che ostenta un certo scetticismo nei confronti dell’opera, ma che intimamente vive un coinvolgimento totale in tutte le attività di Vincenzo.
Sono sul punto di andarmene, quando un «plòp» alle mie spalle segnala lo stappo di una bottiglia di vino. Quel miele rosso è un prodotto di casa, e non si può rifiutare. Agostino mesce rapidamente quattro vigorosi bicchieri, a cui ne seguono altri quattro, e mi risolvo a lasciare cadere placidamente ai miei piedi l’attrezzatura, immergendomi in quella chiacchierata quadrangolare.
Saltano fuori aneddoti, episodi religiosi e storielle di una volta. Volano lazzi, sproloqui e qualche imprecazione – Vincenzo e il cognato di tanto in tanto hanno qualche scontro d’opinione sulla meccanica del cavallo -, ma subito dopo viene tutto intinto nei sorrisi sornioni del ricordo e della celebrazione. Mi viene raccontata tutta ma davvero tutta la storia di questa festa fuori dal comune. L’alcol di quella bevanda vermiglia inizia a provocarmi un senso di lieto torpore, tantoché la percezione del tempo scivola via come un lontano ricordo.
D’un tratto fa capolino la moglie di Vincenzo. «Ma che fine avete fatto?» afferma con tono di bonario rimprovero.
Guardiamo tutti l’orologio. Sono quasi le ventitré. È decisamente ora di andare…