Gio. Nov 21st, 2024

Perché esistono i cortei, una risposta ragionata a Langone

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Pisa, 23 febbraio 2024. Gli studenti scendono in piazza per protestare contro il genocidio di Gaza, piovono manganelli a destra e a manca su quei pericolosissimi adolescenti armati di zainetti Napapjri e ciocche di capelli colorate senza pietà. Italia indignata. Camillo Langone – giornalista del Foglio in vena di provocazioni – dice: «I cortei, anche quando non pullulano di antisemiti pietremuniti come di questi tempi, sono sempre una violenza, la prepotenza di una minoranza rumorosa contro una maggioranza composta da persone con altre idee oppure altri metodi. (…) Perché esistono i cortei?». Italia scandalizzata. Ed è subito bufera.
Facciamo finta che Langone sia serio, e proviamo a dargli una risposta ragionata.

GLI AGORAFOBICI, DA LE BON A FREUD – Intanto, giusto per la cronaca, il giornalista del Foglio non ha inventato nulla di nuovo. Le sue affermazioni non sono altro che una riproposizione, strizzata e asciugata in quattro righe, delle tesi di Gustave Le Bon (Psicologia delle folle, 1895). Alla sintesi gergale di Langone non ci sarebbe molto da aggiungere, se non che in Psicologia delle folle signoreggiano anche altri concetti: la massa è suggestibile, volubile e si lascia influenzare; e l’individuo al suo interno vive come una regressione psichica che annulla la sua individualità ragionante, agisce solo d’impulso e d’inconscio. Insomma, a Le Bon non piacevano un sacco le masse ed era un amante degli uomini forti al comando (chissà Langone).

Il secondo ad occuparsi della questione fu Sigmund Freud (Psicologia dei gruppi e analisi dell’Io, 1921). Anche lui non si allontanava molto dalle tesi di Le Bon, pur proponendo alcuni concetti interessanti. L’individuo che partecipa alla massa, secondo il papà della scienza che studia la nostra follia, prova una forma di liberazione libidica e si libera dei freni sociali. Le prime immagini che potrebbero venire alla mente qui sono quelle di un tassista romano scontroso, stressato dal traffico di città e da quella turista giapponese che non smette mai di fotografare tutto ciò che vede, il quale tira il freno a mano alla prima protesta di colleghi che incontra, concedendosi qualche ora di sana liberazione. Ma, nulla togliendo alla profondità dei tassisti capitolini, Freud forse aveva in mente qualcosina di diverso: riteneva che all’interno della massa s’instaurasse un rapporto «leader-seguace», che quasi assomiglia alla «meta» che vediamo un po’ più sotto in Canetti. Il leader può essere anche un ideale, e ha la funzione di far proiettare il super-Io del soggetto su di sé: della serie direzione, promessa e orizzonte ultimo della folla c’est moi. A Freud tuttavia non sfuggiva un aspetto importante tanto quanto paradossale: la massa impone al soggetto di annullarsi, ma contemporaneamente gli dà un senso di protezione e di potere infinito. Del tipo: scorda chi sei e ti farò diventare qualcuno. Annullamento e protezione, quindi. La massa è potere.

CANETTI E LA MASSA COME EDEN – E proprio sulla scia di questo calembour citazionistico arriviamo al terzo studio sulla questione. Elias Canetti (Massa e potere, 1960), non agorafobico come Le Bon e Freud (e Langone!), sosteneva che nella massa l’individuo trovasse il suo unico momento di eguaglianza assoluta con l’altro; la «meta» che abbiamo sussurrato prima è il presupposto per questo. Comune obiettivo, comuni intenti, uguale percorso portano all’annullamento delle differenze nella «scarica» generata dal raggiungimento della meta. Una sorta di Eden temporaneo in cui le differenze scompaiono e si viaggia tutti insieme felici e contenti. Tuttavia, anche in questo caso l’attenzione è riservata al potere e all’autorità che si esercita nella massa: il leader, il simbolo o la prospettiva escatologica finale orientano e gestiscono la massa. Senza queste la massa non esiste nemmeno. La riflessione più interessante di tutta l’opera è però forse sui simboli – alcune analogie e similitudini le troviamo poco sotto negli studi di Clifford Geertz e Victor Turner –, perché Canetti sostiene che il potere di un gruppo si consolidi grazie ai simboli e ai rituali (immaginiamo le messe, gli Ave Maria e l’urlo degli All Blacks). Simboli e rituali sono le vie attraverso cui scorazza il potere delle masse, ce ne dobbiamo fare una ragione. 

ASCH E MILGRAM, OBBEDIENZA E SADISMO – Oltre a questo po’ po’ di teorie, che ci aiutano molto nell’elaborazione concettuale, ci sono stati anche alcuni esperimenti pratici sulla questione. Solomon Asch, ad esempio, nel 1951 condusse un esperimento sul conformismo e sulla tendenza degli individui singoli ad accettare come vere le affermazioni della maggioranza, anche quando in solitudine esprimerebbero opinioni opposte. Il risultato fu disarmante: il 75% dei «soggetti sperimentali» si adeguava a decisioni palesemente errate. Questo meccanismo perverso secondo cui una cosa è vera perché ci credono tutti è stato sollevato spesso nella filosofia e nella teologia, lo chiamano consensus gentium (consenso universale) e alle «persone impegnate a lavorare e a ragionare» di cui parla Langone nel suo pezzo sembrerà sicuramente una stronzata.

Stanley Milgram, invece, nel 1961 condusse un esperimento sulla tendenza degli individui ad obbedire agli ordini dell’autorità, pure quando questi fossero contrari alla morale individuale. Per giudicare i fatti di Pisa questo può esserci molto utile – è bene ricordalo: in piazza a Pisa non c’era solo la massa degli studenti, ma anche un massa mazzamunita di poliziotti che li aveva scambiati per palle da baseball. L’esperimento di Milgram mostrò che il rapporto stretto con un’autorità considerata legittima, l’adesione al sistema di norme vigenti e le pressioni esterne determinano una obbedienza del soggetto allo «stato eteronomico» (in parole povere: agli ordini dettati dall’autorità). In soldoni, dimostra che chi esegue un ordine è completamente deresponsabilizzato e tendente all’obbedienza (molto si è detto sul processo Eichmann in questo senso).

NASCITA E IDENTITÀ NEI MOVIMENTI – Eppure gli studi sulle masse e dei cortei non si limitano solo a questo. Alcune osservazioni importanti sono state formulate da Stein Rokkan e Alain Tournaine sull’origine dei movimenti sociali. Sebbene da due prospettive diverse, entrambi concordano sul fatto che un movimento nasca da una frattura con un movimento precedente. Rokkan chiamava questo processo «clivage» e si potrebbe tradurre con il termine “scollatura”: tutti i movimenti sociali, i partiti e le masse nascono quando c’è una frattura, una scollatura con la massa di cui facevano parte prima (quel pazzo sgravato di Nietzsche fece un discorso simile sulla morale e sul «risentimento» in Al di là del bene e del male, 1886). Questi aspetti trovano una certa forma di analogia con il concetto di «antistruttura» che vediamo poco dopo in Victor Turner.
In questo mare magnum di studi, analisi e teorie un importante italiano ha dato il suo validissimo contributo. Stiamo parlando di Alberto Melucci (tra tutti: Movimenti di rivolta. Teorie e forme dell’azione collettiva, 1976), e ha il merito di aver definito il concetto di «identità collettiva» nei movimenti sociali. Qui ci si distanzia molto dalle teorie che vedono nel movimento sociale e nella massa un fenomeno negativo di sola opposizione a qualche cosa, ma si fa il salto mentale e teorico necessario a riconoscere la creazione del movimento come un processo di nascita di un nuovo valore e di una nuova identità di massa. Insomma, una sorta di parto morale ecumenico e di gestazione collettiva (una maternità surrogata ante litteram!).

SIMBOLI E COMUNICAZIONE – Sgattaiolando ancora lungo le cose che bisogna sapere prima di giudicare, ci sono gli studi di Clifford Geertz e Victor Turner sul simbolismo. Gli studi di questi due antropologi sembrano essere complementari l’uno all’altro. Geertz, sulla scorta delle analisi di altri studiosi (Max Weber, Talcot Parsons) si occupò del ruolo dell’interpretazione dei simboli nell’ambito delle scienze sociali e dei movimenti sociali. Detto in stringatissime righe, lui tenta di superare il principio causale dei fenomeni sociali e si concentra sul risultato dell’interpretazione che la società dà ai suoi simboli. E proprio i simboli sono poi il sottosuolo da cui parte Victor Turner per la sua teoria del simbolismo di massa (Il processo rituale: struttura e antistruttura, 1969). Secondo Turner, i rituali possono essere degli strumenti attraverso cui un movimento sociale passa da una struttura ad un’antistruttura, intesa questa come luogo in cui la gerarchizzazione crolla e tutti i membri della società sono uguali e interconnessi.
In ultimo, ultimissimo luogo, e poi ci avviamo verso la risposta, troviamo gli studi di Manuel Castells (Comunicazione e potere, 2009). La percezione che qui si ha dei movimenti sociali è chiaramente positiva, dal momento che vengono individuati come valido contropotere al potere egemone: solo attraverso i movimenti sociali e una solida comunicazione di rete è possibile costituire nuovi valori e scardinare l’ordine imposto dal potere imperante.

LA RISPOSTA RAGIONATA – Arriviamo dunque alla risposta ragionata, dopo questa (forse non troppo) breve passeggiata lungo gli studi, le analisi e le teorie che sono state condotte sull’argomento.
La risposta potrebbe essere banale: i cortei esistono perché la natura dell’uomo urbano è sociale, e rappresentano una naturale forma di espressione di un’opinione, complessa o primitiva che sia, all’interno di un contesto di convivenza in cui la relazione (anche di potere) è la grammatica del quotidiano. Ma possiamo anche spingerci oltre, il «tanto tempo a disposizione» ce lo concede, e magari servirci di tutta la cassetta degli attrezzi che abbiamo sbattuto sul tavolo del lettore nelle righe precedenti.

Anzitutto non bisogna fraintendere le tesi di Le Bon e Freud. La loro analisi si limita alla condizione della manifestazione di folla in quanto tale, e tralascia del tutto la preparazione della volontà della folla, che invece qui è determinante. In versi più sobri: è vero che in una massa l’individuo è costretto ad omologarsi (su questo anche Asch), ma è altrettanto vero che la formazione della volontà collettiva avviene fuori da quella massa. La massa è l’epilogo di una volontà pre-formata, non il suo principio. Onestamente, credere il contrario sarebbe un paradosso. Perché mai uno dovrebbe unirsi alla massa se non è della stessa opinione dei suoi membri? Si può davvero pensare che uno prima scenda a manifestare e solo dopo scopra il perché? La risposta è così banale che non merita nemmeno di occupare spazio…
Anche Canetti va preso con le pinze. L’eguaglianza a cui lui allude è immanente al momento della scarica, in cui il raggiungimento della meta permette insieme l’unificazione e lo scioglimento del nuovo corpo. Ma fuor di metafora, è ragionevole credere che l’organizzazione, anche quella delle manifestazioni, possa contribuire a colmare le sperequazioni generate dal sistema capitalista e dal potere dominante. A cosa servirebbero i sindacati altrimenti? E perché insorgemmo in massa contro il regime fascista durante la guerra civile? La risposta e anche in questo caso semplice: la società preserva ancora degli squilibri di forza – uno vale uno solo nelle favole – e l’unico modo per contrastare il potere e le sue decisioni ingiuste è che i non-potenti (o dominati, secondo una fortunata espressione di Marco D’Eramo) sommino le loro esigue forze dando vita a qualcosa di nuovo. Allora sì, l’unione in massa è garanzia di una maggiore eguaglianza.

Piccola digressione: il potere non è solo quello che viene raffigurato da un’istituzione; potere non è il palazzaccio fascista né la prigione di Guantanamo; ma è soprattutto quell’insieme di relazioni e di rapporti che costruiscono il labirinto entro cui si muove l’individuo ogni giorno (Castells, ma anche Foucault). L’evidenza originaria e incontrovertibile – non la possiamo mutare chiudendo gli occhi o andando a letto alle nove – è che questa forma di potere esiste e influenza le vite di ognuno di noi. Ognuno di noi, grazie alle attività delle masse del passato, ha la possibilità di comunicare con un altro tassista scontroso come lui e di mettersi d’accordo, stabilendo una linea d’interpretazione comune (pre-formata quindi, e non formata al corteo). Non è nullificazione del soggetto, si chiama solo dialogo e cooperazione sociale. Se la linea è contraria alle scelte che il potere mette in atto, allora si cerca di fare pressione e ritrovare nel simbolo e nel rituale (Turner, Tournaine  e Geertz) il modo per comunicare, sia al potere che agli altri soggetti, questa linea d’interpretazione (Turner, Rokkan). Attraverso questa prospettiva il corteo non è più confuso con la massa, ma con il simbolo, il rituale che una massa più ampia adotta per comunicare una linea d’interpretazione diversa da quella assunta dal potere. Tutto il popolo italiano, che è una massa (chissà Langone che dice ora), ha come simbolo la protesta e come rituale la manifestazione; attraverso essi esprime una serie di significati, mettendo in atto all’interno di se stesso un vero e proprio circolo comunicativo. Fine della digressione.

Tenendo in conto questi aspetti, non si può pensare che la massa possa essere ridotta a predominio della minoranza rumorosa sulla maggioranza di individui benpensanti. L’estremizzazione dell’individualismo, assunto come ideale di liberalismo e poi esasperato come parcellizzazione della società, è forse il modo più stolto e idiota di consegnare, chiavi in mano, il potere assoluto nelle mani di una massa organizzata, sia essa lo Stato, il grande capitale o la mafia. Negare che l’individuo abbia la possibilità di creare la sua individualità attraverso l’incontro con l’altro, e quindi anche attraverso il sodalizio, la coesione e l’organizzazione, magari pensando che l’unica forma di autenticità è il delirio liberista di onnipotenza dell’Io; negare la genesi sociale della propria umanità e della propria esistenza, dicevamo, è il preludio della subalternità e dell’annientamento del popolo e dell’individuo (Langone compreso).

Quale contropotere ad un potere organizzato allora? Cosa potrebbe mai un libero pensatore, un Io-ultradeterminato langoniano davanti ad una massa organizzata in Stato, in mafia o in Capitale? Quale equilibrio per la nostra società ci sarebbe, se le masse non avessero avuto l’ardimento di unirsi a di fronteggiare il potere creando un’antistruttura (Turner)?
Sempre su queste pagine, Annachiara Borsci ha formulato un’attentissima analisi del pensiero arendtiano intorno all’autenticità del pensiero, affermando che l’unica forma possibile di autenticità è intravista nel pensiero sociale, collettivo. Noi ci aggiungiamo che il pensiero autentico è monco, caduco se poi non è seguito da un’altrettanto autentica manifestazione del pensiero formato. Allora il pensare autentico sta al parlare autentico, così come la discussione sta alla manifestazione corale, collettiva. E il corteo non è la massa, ma il simbolo attraverso cui quella massa manifesta il dissenso, sempre entro il perimetro della struttura; sta poi allo Stato, al potere, non fare in modo che quel simbolo diventi rituale di transizione verso un’antistruttura (Turner).
La libertà dell’individuo dipende dal modo in cui il potere tutela i cortei e il loro svolgimento. Ma questo Langone lo sa sicuramente, voleva solo scherzare. I poliziotti un po’ meno.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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