“Rassegna di meridionalismi” è una rubrica del mercoledì sera che ha il fine di riannodare la storia del meridionalismo, dalle origini sino ad oggi. Per questo articolo di apertura ci occupiamo del primo meridionalista in assoluto, dell’uomo che è riconosciuto pacificamente come il pioniere della letteratura meridionalistica: Pasquale Villari.
La primavera del 1875 vide la pubblicazione su L’Opinione, un quotidiano moderato di Giacomo Dina, delle Lettere meridionali di Pasquale Villari. Unanimemente la storiografia concorda nell’affermare che il dibattito sulla questione sociale postunitaria, che successivamente acquisirà il nome di «questione meridionale», ebbe inizio proprio con questa pubblicazione.
Pasquale Villari, nato a Napoli il 3 ottobre 1827, fu uno dei più eminenti intellettuali e storiografi della sua epoca. La sua rilevanza intellettuale è riconosciuta anche dai suoi più ostinati detrattori, come Giovanni Gentile. Inoltre, possiamo considerarlo non solo il pioniere della questione meridionale, ma anche l’autore del manifesto programmatico del positivismo italiano (La filosofia positiva e il metodo storico). Le sue opere, con particolare riguardo alle analisi sulla questione meridionale, sono fondamentali per la nostra analisi.
LE LETTERE MERIDIONALI – Le Lettere, poi raccolte in volume tre anni dopo, custodiscono già nella prefazione le ragioni che spinsero Villari ad intraprendere le sue analisi sulla questione sociale:
Gli scritti che raccolgo in questo volume, versano tutti, più o meno, intorno allo stesso argomento. Io non mi sono mai potuto persuadere che in un paese libero, che trae come il nostro la sua ricchezza e la sua vita economica principalmente dai prodotti del suolo, le moltitudini, e più di tutte quelle che sono date all’agricoltura, debbano restare nella misera e dura condizione, in cui le lasciarono i passati Governi. Ingiustissimo mi parve sempre, che coloro i quali lavorano più di tutti, e che sono i produttori della pubblica fortuna, debbano così spesso trovarsi senza mezzo di sostentare la vita. E quando sento da molte parti persone autorevoli, esperte, imparziali, ripetere, che il nuovo ordinamento politico d’Italia non migliorò le condizioni di questa gente, e qualche volta anche le peggiorò, sono indotto a domandarmi: una libertà fondata in questo modo può dirsi che riposi sopra una base sicura?
Ciò che spinse Villari a condurre le sue analisi su questo «arduo problema» fu l’esito della Terza guerra d’indipendenza italiana del 1866. La debolezza del Regno si dipinse agli occhi dell’autore come la debolezza di una nazione intera, perché nella guerra «si misurano tutte quante le forze delle nazioni», dove a vincere è sempre la nazione più civile. L’Italia, incapace di raggiungere un livello di civiltà adeguato a garantirne la vittoria, aveva corso eccessivamente, fregiandosi di rivoluzioni fortunate e di progressi non consolidati. Era necessario scandagliare le problematiche che ne minavano la stabilità.
Sempre nella prefazione all’edizione del 1878, la critica si sofferma sui metodi utilizzati del neonato Regno d’Italia per educare le classi contadine e proletarie:
Obbligare il contadino ed il proletario alla scuola, insegnar loro a leggere libri e giornali, insegnar loro i doveri e i diritti dell’uomo, chiamarli nell’esercito, dove imparano col rispetto degli altri quello della dignità propria, per farli tornar poi ad una vita che spesso è simile alla vita di schiavi, e credere che così non si apparecchiano pericoli per l’avvenire, significa, mi sembra, rinnegare la Storia, l’esperienza e la ragione.
Villari rimaneva convinto però che il governo dello Stato spettasse alla borghesia, e che il socialismo fosse uno spettro da allontanare. Ma proprio la classe governante borghese aveva allora il compito di intervenire per sanare i conflitti sociali, fondando il suo governo «sulla forza materiale e morale, sulla sua cultura e sulla sua giustizia».
Non sfuggì alle élite liberali dell’epoca che il Mezzogiorno reagiva al processo di unificazione in maniera differente rispetto al Centro-Nord. I tumulti, le violenze e le guerriglie urbane furono i fenomeni che più di tutti turbarono l’opinione pubblica italiana. La penisola non era un territorio con un popolo unito da un comune sentire e dall’unione psicologica, sociale ed economica; tutt’altro: una cospicua parte del suo territorio si presentava ingovernabile e visceralmente recalcitrante all’avvento del governo piemontese. La comparsa in tutta la sua plasticità della questione meridionale si ha con la guerra del brigantaggio, e con le migliaia di vittime provocate.
Le élite liberali convennero che l’unico modo per perseguire l’obiettivo dell’unificazione era garantire un unico, accentrato apparato istituzionale e politico. E proprio l’accentramento e il marcato utilizzo della forza spinsero taluni meridionalisti a definire l’unificazione del Nord e del Sud della penisola una mera «conquista regia». La linea governativa era però già stabilita, e non accennava a titubanze di sorta. Eloquenti, quando non emblematiche di tale situazione, sono le parole di Cavour del 1860:
Lo scopo è chiaro; non è suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta e più debole dell’Italia. Sui mezzi, non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non basta la fisica.
Reso un ibrido forgiato dalla necessità, il nuovo Stato unitario non ebbe i tratti né delle forme di governo autoritarie né di quelle pienamente liberali. Poi la complessa condizione sociale e politica del governo del Sud rendeva necessaria una certa forma di accentramento e la ristrettezza del suffragio, ancora fortemente elitario.
LA QUESTIONE PEDAGOGICA – Un mese dopo la fine della Terza guerra d’indipendenza Villari pubblicò un breve saggio, Di chi la colpa? o sia la pace e la guerra, in cui metteva a nudo le debolezze della civiltà italiana. Un ruolo determinante, data anche la sua peculiare attenzione per la pedagogia, fu dato all’istruzione:
È forse la natura che ci ha resi cosi inferiori? o non sono l’educazione e la istruzione, ricevute e trasmesse di generazione in generazione, quelle che hanno in ogni classe migliorato tutte le facoltà e le abitudini, perfezionalo tutto l’uomo?
L’attenzione, secondo l’autore, doveva essere indirizzata alle condizioni dei borghi più poveri. Lì si annidava la resistenza ad un processo di unificazione che trascendesse la mera unità politica e territoriale. Lo sguardo era sempre rivolto a Napoli:
Non pensate solamente al leggere ed allo scrivere. Entrate nella città di Napoli, lasciate quelle vie, dove abita la gente colta ed agiata, dove corrono i ricchi e splendidi equipaggi, penetrate, invece, nei quartieri più remoti, dove i vicoli ed i chiassi sono cosi confusi ed intrecciati fra loro, e le case così alte e vicine, che si forma un laberinto in cui, non che altro, neppure l’aria può liberamente circolare. Le vie sono cosi sudice ed anguste, che l’uomo a fatica può vivervi, e se vi arriva lo spazzaturaio del Municipio, v’offende ancora il lezzo che esce dalle case. La vita s’abbrevia, la salute è estenuata, le malattie si moltiplicano, e quando giunge fra di essi il colèra, miete a migliaia le sue vittime; gli storpii e gl’invalidi son molti; la coscrizione deve respingerne un numero non piccolo, per incapacità fisica: campano la vita con mestieri assai rozzi e primitivi, dando una produzione insignificante.
L’ostacolo all’unificazione passava per l’ignoranza delle plebi e per l’assenza di uno spirito morale unitario. Volgendo lo sguardo verso l’interno, Villari arrivava alla conclusione che:
Bisogna però che l’Italia cominci col persuadersi, che v’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocratici macchine, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale, e la rettorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi. Il momento è venuto, per fare una leva in massa di tutti gli uomini di buona volontà, e compiere questa nuova spedizione nell’interno. Il paese è convinto e disposto ad ogni acrificio, pur di sentirsi uguale a se stesso.
Quanto alle Lettere, Villari iniziò la loro pubblicazione in un periodo storico di forte instabilità politica per la Destra storica. Nel 1874 vi era stato il ribaltamento degli equilibri politici, e le sue riflessioni suonavano anche come un appello alla sua stessa compagine politica.
La classe dirigente meridionale diventava colpevole di non essere stata in grado di concepire la questione sociale del Mezzogiorno in maniera organica, complessa. Non era sufficiente costruire strade e avviare settoriali lavori pubblici. I borghi e le città non avevano vissuto il processo di crescita e metamorfosi necessarie a permettere la nascita di un comune sentire nazionale. La conseguenza era, agli occhi di Villari, una vera e propria frattura sociale. Da un lato vivevano gli avvocati, i medici e la gente colta e benestante, che nulla avevano da invidiare alla popolazione del resto d’Europa, mentre dell’altro vi era il popolo, con le proprie credenze, l’inestinguibile ignoranza e la totale estraneità all’agire politico delle classi colte. Sia l’una che l’altra compagine della popolazione meridionale convivevano senza comunicare, rendendo caduco il processo di crescita e metamorfosi politica che avrebbe dovuto portare alla nascita di un sentimento unitario. La radice di tale divisione non poteva che passare per l’istruzione e per le condizioni in cui era l’insegnamento pubblico.
GLI STUDI SULLA CAMORRA – Una particolare attenzione fu riservata da Villari al fenomeno della camorra napoletana. Lungi dal rappresentare per lui una forma di mero banditismo, la camorra acquisiva una dimensione irrimediabilmente più complessa, organica ed extralegale. La caduta del regime borbonico vide la camorra protagonista del ribaltamento della polizia ad opera di Liborio Romano; poi fu Silvio Spaventa a porre un argine – inutile a detta di Villari – allo «scandaloso potere» che aveva conquistato.
Secondo Villari, la camorra era un dato intrinseco, quasi biologicamente immanente, al sistema e alla struttura sociale della società napoletana. Che egli avesse compiuto il salto mentale che solo ai nostri giorni ha acquisito i tratti di una rinomata, icastica certezza popolare, lo si comprende dall’esclusione che la camorra fosse presente «solo negli ordini inferiori della società»; essa, sostiene Villari, è presente anche tra la gente «in guanti bianchi ed abito nero, i cui nomi e i cui delitti da molti pubblicamente si ripetono». Tale tesi portava ad un corollario:
Ogni sforzo sarà però vano se, nel tempo stesso in cui si cerca di estirpare il male con mezzi repressivi, non si adoperano efficacemente i mezzi preventivi. Io non mi stancherò mai di ripeterlo: finché dura lo stato presente delle cose, la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte.
Le soluzioni per le radicali problematiche del Mezzogiorno erano da ritrovare in un’azione che contrastasse anche lo sfrenato liberismo del capitalismo. La tutela dei deboli, dunque delle classi più povere, era un punto nodale della strategia di Villari. L’istruzione, l’intervento dello Stato e la tutela delle plebi meridionali furono i pilastri dell’insegnamento di Pasquale Villari, che tanto merito ebbero nel formare lungimiranti meridionalisti come Sidney Sonnino, Leopoldo Franchetti e Gaetano Salvemini.
Rimase sempre un maestro per i meridionalisti successivi, ma le nuove generazioni degli intellettuali del Sud, che pur sui suoi studi si erano formati, contribuirono a dare nuova forma e sostanza agli studi sulla questione del Mezzogiorno.